Fecondazione in vitro e licenziamento discriminatorio: l’importanza dell’onere probatorio secondo la Corte di Cassazione
| di Federico Fornaroli
Bollettino ADAPT 20 ottobre 2025, n. 36
La Suprema Corte di cassazione è recentemente intervenuta a decidere relativamente a un caso peculiare e insolito, concernente il licenziamento di una lavoratrice che era ricorsa alla fecondazione assistita in vitro. Questo, peraltro, nell’ambito di un articolato contesto fattuale, caratterizzato altresì da un trasferimento di azienda.
In particolare, detta sentenza di legittimità è stata originata dalla pronuncia emessa dalla Corte d’Appello di Trieste, che, in riforma di quella di primo grado, ha dichiarato nullo il licenziamento della lavoratrice intimato dal proprio datore di lavoro, giacché determinato dal percorso di procreazione medicalmente assistita intrapreso dalla dipendente e dunque da considerarsi discriminatorio.
Il relativo ricorso promosso dal datore di lavoro in Cassazione è stato dichiarato inammissibile, in quanto i giudici di legittimità hanno aderito all’interpretazione tratteggiata dalla succitata Corte d’Appello, attraverso una puntuale argomentazione dei vari aspetti afferenti al caso di specie.
Più precisamente, gli Ermellini si sono soffermati su una lunga disamina preliminare in ordine ai profili processuali e al correlato onere probatorio che le parti coinvolte sono chiamate a soddisfare in ipotesi di impugnazione del licenziamento per discriminatorietà, secondo il regime attenuato di cui al D. Lgs. n. 198/2006. Difatti, è opportuno sottolineare come quest’ultima disposizione implichi l’inversione dell’onere probatorio in capo al datore di lavoro, “quando il ricorrente fornisce elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico relativi alle assunzioni, ai regimi retributivi, all’assegnazione di mansioni e qualifiche, ai trasferimenti, alla progressione in carriera ed ai licenziamenti, idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, la presunzione dell’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori in ragione del sesso”.
Segnatamente, i giudici di Piazza Cavour hanno anzitutto verificato l’attenta e corretta valutazione compiuta dalla Corte d’Appello circa l’assolvimento di tale onere da parte della lavoratrice, in forza – come da consolidata giurisprudenza opportunamente richiamata – della ricorrenza di “elementi di fatto, anche non gravi, ma precisi e concordanti, idonei a fondare la presunzione dell’esistenza di atti o comportamenti discriminatori”, mutuati da un ragionamento logico-induttivo, più che dal controllo “asettico” delle vicende versate in atti (considerate sia individualmente che complessivamente).
Nel dettaglio, la sequenza cronologica delle circostanze fattuali ha giocato un ruolo fondamentale nella decisione formulata in sede di legittimità. Infatti, la società ha principalmente difeso le proprie ragioni in virtù del rifiuto della lavoratrice al trasferimento del proprio rapporto di lavoro in capo alla cooperativa cessionaria, nella cornice di un’operazione di “sostanziale trasferimento d’azienda ex art. 2112 c.c.”, che aveva visto quest’ultima assumere la gestione dell’ambulatorio dove la lavoratrice era occupata.
Tuttavia, di detto rifiuto non è stata fornita sufficiente e prova e, anzi, la circostanza per la quale la lavoratrice sia stata licenziata proprio “in concomitanza con la fase più delicata della procedura di FIVET” (ossia, fecondazione in vitro) è stata ritenuta conferente con la natura discriminatoria dell’intimato provvedimento espulsivo. E ciò, anche e soprattutto alla luce del fatto che già dall’anno antecedente a siffatto licenziamento il datore di lavoro era a conoscenza della volontà della lavoratrice di avvalersi della FIVET, in quanto egli era “medico di famiglia della lavoratrice e prescrittore dei farmaci necessari”.
Dunque, la discriminazione in questione risulta essere derivata dal combinato disposto dei seguenti eventi:
– accelerazione del licenziamento nel momento più prossimo della procedura di FIVET azionata dalla lavoratrice;
– assenza di analogo “impulso espulsivo” ad opera del datore di lavoro prima di tale circostanza, malgrado detta volontà della lavoratrice fosse già nota da tempo al datore di lavoro;
– carenza di necessità di conseguire il consenso della lavoratrice al trasferimento del proprio rapporto di lavoro in capo al cessionario da parte della società datrice di lavoro-cedente, giacché siffatto trasferimento era inevitabilmente soggetto, per sua natura, alle regole dell’art. 2112 c.c. Difatti, quest’ultima fattispecie stabilisce (in estrema sintesi) l’automatica e integrale prosecuzione – senza soluzione di continuità ed esigenza di ottenere il consenso del lavoratore interessato-ceduto – dei rapporti di lavoro del cedente nei confronti del cessionario. quand’anche la lavoratrice avesse formulato il proprio rifiuto al menzionato trasferimento (cosa comunque non provata), ad ogni modo, esso non sarebbe stato influente.
A ciò, inoltre, aggiungasi che, per esaminare e definire la controversia, è stato ritenuto legittimo il ricorso da parte del giudice ai valori delle tabelle ministeriali in relazione alla maggior probabilità di successo della procedura FIVET rispetto a quella della c.d. PMA. Infatti, tali tabelle devono reputarsi fatto notorio e, quindi, utilizzabile dall’organo giudicante adito, per corroborare le proprie scelte e valutare la FIVET come evento che ha originato nel datore di lavoro una minor tolleranza circa la conservazione del rapporto di lavoro della dipendente in parola.
In conseguenza di tali elementi, le tesi dedotte dal datore di lavoro sono state considerate insufficienti e insoddisfacenti a dimostrare l’assenza di un intento discriminatorio di genere e connesso alla procedura di FIVET alla base dell’intimato licenziamento, tenuto peraltro conto del suindicato principio di riparto dell’onere della prova in materia ex art. 40 del D.Lgs. n. 198/2006.
Tanto premesso, non è possibile evitare di soffermarsi sull’importanza della sentenza in oggetto con riferimento all’interpretazione e all’applicazione delle norme attinenti alla discriminazione di genere nel contesto lavorativo e, in particolare, con riguardo alla suddivisione dell’onere della prova fra datore di lavoro e dipendente, specialmente laddove quest’ultima sia intenzionata ad avvalersi a tecniche di procreazione medicalmente assistita.
Pertanto, sebbene in maniera indiretta e velata, quanto precede potrebbe altresì leggersi come volontà giurisprudenziale di avvicinare dette situazioni a quella della gravidanza naturale, che, sul piano delle tutele applicabili, è ben più storicamente diffusa e tipica (oltre che tipizzata) nel nostro ordinamento.
ADAPT Professional Fellow
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