Elezioni, anche gli imprenditori tra i dimenticati dalla comunicazione renziana

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All’esito delle elezioni politiche, le analisi del giorno dopo (a maggior ragione quelle della settimana dopo) rischiano di essere sempre troppo facili. Eppure la domanda su come Matteo Renzi sia riuscito a dilapidare il consenso accumulato dimezzandolo rispetto al picco delle europee 2014 rimane aperta. Anche di fronte a chiari e molteplici dati sulla distribuzione demoscopica del voto. Troppi i fattori che hanno contribuito alla più deludente percentuale nella storia del Partito Democratico, ma uno di questi risulta particolarmente curioso. Non sono solo molti operai e molti i giovani ad aver espresso la loro preferenza per la Lega (ancora “Nord”, vista la geografia del voto) e per il Movimento 5 Stelle, già ribollato come “la nuova sinistra”. Anche la maggioranza degli imprenditori, soprattutto dei piccoli, non ha scelto il PD.

 

 

 fonte: la Repubblica

 

Se per giovani e operai si può almeno in parte formulare una spiegazione con la discrepanza tra la comunicazione e gli effetti sensibili del Jobs Act e della Garanzia Giovani, per gli imprenditori, lusingati da generosi incentivi economici per le assunzioni a tempo indeterminato, ipotizzare una motivazione risulta più difficile. Una soluzione è quella di affidarsi alla nozione retorica dell’identificazione: come avrebbero potuto i conduttori di imprese in difficoltà, quando non in crisi (per una narrazione tipo si leggano ad esempio le interviste di Nicolo Zancan nel vicentino), identificarsi con l’entusiasmo del Presidente del Consiglio che durante il suo governo ha spaziato l’Italia in lungo in largo facendo visita solo alle realtà di successo? Dallo stabilimento FCA di Melfi sino alla Stahlbau Pichler di Bolzano, passando per l’abruzzese Walter Tosto e la rubinetteria bresciana Bonomi, Renzi ha tracciato un percorso orientato al pur nobile scopo di mostrare che esiste un’Italia dell’ingegno e dell’eccellenza che ce la può fare. Ma nel frattempo le imprese dei secondi non hanno potuto accontentarsi degli esempi virtuosi, come se tutto quello che servisse loro fosse un po’ di ispirazione.

 

Non è una considerazione nuova, ma a tali realtà, messe in difficoltà non tanto o non solo dai costi, ma dalla trasformazione della domanda, non potevano apparire risolutivi nemmeno gli incentivi offerti per allargare stabilmente la loro pianta organica. È anche così che il Partito Democratico ha creato le premesse per continuare a farsi sfilare le fabbriche dalle comparsate di Salvini, Meloni e Di Battista davanti agli stabilimenti in crisi, o addirittura dentro. Un comportamento certo coerente con la scelta di non interferire con l’attività dei sindacati nelle aziende, perimetro che il governo Renzi ha sempre descritto come una giurisdizione “naturale” delle parti sociali. Ma una scelta che, fatto il paio con la predilezione per le esperienze di vertice, ha probabilmente creato il vuoto tra i veri “bisognosi” della produzione italiana e la classe dirigente in carica.

Un errore non veniale se è vero che, come affermano gli studi più quotati di geografia del lavoro, le disparità diminuiscono a livello globale, ma aumentano a livello locale, creando nelle periferie, anche in quelle della produzione, quelle sacche di risentimento che trovano come unica identificazione possibile il populismo o il sovranismo di turno. In fondo pare essere questa la sfida più evidente che le ultime consultazioni elettorali a livello globale consegnano a chi si ritrovi l’onere di governare: saper ricucire la distanza tra centri e periferie. Lunghezze che la fiducia nella comunicazione capillare via social media sembra paradossalmente aver acuito, nell’attesa di nuovi contatti vis-à-vis, lontano dai riflettori della campagna elettorale.

 

Francesco Nespoli

ADAPT Research Fellow

@FranzNespoli

 

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