Dimissioni per fatti concludenti: disposizioni ad hoc o termini previsti per l’iter disciplinare? Il Ministero risponde
| di Marco Tuscano
Bollettino ADAPT 7 luglio 2025, n. 26
Com’è noto, con l’art. 19 della L. n. 203/2024 (c.d. “Collegato Lavoro”) è stata disciplinata la nuova fattispecie delle dimissioni per fatti concludenti (anche dette “dimissioni implicite”), inserita all’articolo 26, comma 7-bis, del D.Lgs. n. 151/2015.
In seguito, con la circolare n. 6/2025 del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, sono stati forniti importanti chiarimenti riguardanti l’applicazione delle nuove disposizioni, anche relativamente agli aspetti squisitamente tecnici, utili per dissipare larga parte dei dubbi gravanti sugli stakeholders.
Riepilogando, oggi la norma di riferimento così si esprime: “In caso di assenza ingiustificata del lavoratore protratta oltre il termine previsto dal contratto collettivo nazionale di lavoro applicato al rapporto di lavoro o, in mancanza di previsione contrattuale, superiore a quindici giorni, il datore di lavoro ne dà comunicazione alla sede territoriale dell’Ispettorato nazionale del lavoro, che può verificare la veridicità della comunicazione medesima. Il rapporto di lavoro si intende risolto per volontà del lavoratore e non si applica la disciplina prevista dal presente articolo. Le disposizioni del secondo periodo non si applicano se il lavoratore dimostra l’impossibilità, per causa di forza maggiore o per fatto imputabile al datore di lavoro, di comunicare i motivi che giustificano la sua assenza”.
La circolare richiamata, per quanto qui di interesse, ha poi chiarito che la nuova disciplina delle dimissioni per fatti concludenti non è certamente foriera di alcun automatismo, in ordine alla necessità che sia il datore di lavoro ad attivare la nuova procedura, nel silenzio del lavoratore, dando il là all’effetto risolutivo. Sulla questione, è stato illustrato dalla circolare ministeriale che il periodo minimo valido per l’attivazione della stessa è quello stabilito appositamente dalla contrattazione collettiva, e solo in via residuale dalla legge (id est 15 giorni di calendario), con l’ulteriore chiarimento che tale limite – di natura, come detto, legale – rappresenta anche il minimo inderogabile, indipendentemente dalle precipue disposizioni delle fonti negoziali.
Orbene, l’obiettivo del Legislatore, a ben osservare, è quello di assegnare una nuova centralità all’autonomia collettiva, la quale può evidentemente predisporre tutele, protezioni e misure plasmate appositamente sullo specifico settore di riferimento, e sulla fattispecie concreta, a garanzia di entrambe le parti contraenti; tutto ciò, indubitabilmente, nel rispetto di un principio cardine: quello dell’inderogabilità in peius “della norma del diritto del lavoro, che in linea di principio non è disponibile dalla autonomia negoziale privata (individuale o collettiva)” (M. Tiraboschi, Teoria e pratica dei contratti di lavoro, 2020, Adapt, p. 31).
Sulla questione, la circolare richiamata ha poi chiarito che, però, le disposizioni dei contratti collettivi in tema di procedimento disciplinare sono da ritenersi di fatto inapplicabili per le nuove dimissioni implicite, nella misura in cui le stesse sono disegnate a mente e a coronamento del principio del contraddittorio sancito dall’art. 7, L. n. 300/1970 (ovvero, nella garanzia di un diritto di difesa attribuito al lavoratore). Difatti, solo nel rispetto di una contestazione preventiva, della possibilità di fornire controdeduzioni e di un opportuno spatium deliberandi per terminare l’iter – normalmente meglio delineato dalle fonti negoziali collettive – il datore di lavoro può addivenire a una sanzione disciplinare, anche di tipo espulsivo.
Di recente, la sentenza n. 87/2025 del Tribunale di Trento ha sollevato alcuni dubbi circa l’interpretazione fornita in chiave ministeriale, in ordine ad alcuni passaggi in essa contenuti, talora ritenuti come il grimaldello legittimante la traslazione dei termini previsti per il contesto disciplinare alla diversa procedura delle dimissioni implicite.
Da ultimo, in data 24 giugno 2025, sul sito URP del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali è stata data un’ulteriore risposta sulla questione (ossia, segnatamente, alla seguente domanda: “Le disposizioni del CCNL sulle assenze ingiustificate possono dar luogo a dimissioni di fatto anziché ad un licenziamento?”), la quale risulta foriera di utili argomentazioni.
In quella sede, più in particolare, ribadendo la lettura secondo cui la sanzione espulsiva e le dimissioni per fatti concludenti rappresentino due binari differenti, è stato chiarito che “è ragionevole ritenere la necessità di un termine più ampio rispetto ai pochi giorni già previsti dai contratti collettivi per il licenziamento [disciplinare, n.d.a.] perché in quel caso la procedura di garanzia prevista dall’art. 7 dello Statuto dei lavoratori consente lo scrutinio delle opposte ragioni ed il controllo di legittimità delle decisioni”, cosa quest’ultima non prevista per la disciplina di cui all’articolo 26, comma 7-bis, D.Lgs. n. 151/2015, che anzi si fonda proprio sul silenzio del lavoratore. Ed infatti – qui si ricorda, richiamandosi alla circolare M.L.P.S. n. 6/2025 – “La cessazione del rapporto avrà effetti dalla data riportata nel modulo UNILAV, che non potrà comunque essere antecedente alla data di comunicazione dell’assenza del lavoratore all’Ispettorato territoriale del lavoro” tenuto conto che la comunicazione all’Ispettorato rappresenta il “dies a quo per il decorso del termine di cinque giorni previsto per effettuare la relativa comunicazione obbligatoria di cessazione del rapporto di lavoro tramite il modello UNILAV”.
In altri termini, anche preso atto dei periodi normalmente previsti dai contratti collettivi per procedere al licenziamento disciplinare per assenza ingiustificata (ad es.: “oltre tre giorni nell’anno solare” ex 238 Ccnl Terziario, distribuzione e servizi, oppure “oltre 4 giorni consecutivi” ex art. 10 Ccnl metalmeccanica industria), risulterebbe ingiustificato (ma anche, a ben osservare, ingiusto) ricorrere a quelle peculiari tempistiche specificatamente predisposte per un altro tipo di percorso.
Il Ministero, in quella sede, ha affermato peraltro che “La lettura fornita nella circolare n. 6/2025 non appare superata dalla sentenza n. 87/2025 del Tribunale di Trento che […] ha peraltro adottato un provvedimento di reintegrazione, dichiarando l’illegittimità del licenziamento e negando completamente la configurabilità delle dimissioni di fatto nel caso concreto”.
Una siffatta lettura appare senz’altro condivisibile, in ordine a plurime considerazioni, di seguito esposte.
In primis, allo stato attuale, in ossequio al principio – fondamentale – del favor prestatoris (il quale, d’altra parte, è da considerarsi “anche come principio generale di diritto integrante le fattispecie ove sia rimasta dubbia la volontà del legislatore”, così M. Rinaldi in AA.VV., Lavoro – Vol. I: Le fonti, Diritto sindacale – Lavoro subordinato – Contratto di lavoro – Datore di lavoro, 01/2009, Utet, p. 304), in assenza di disposizioni contrattual-collettive apposite, risulta a favore della parte debole del rapporto di lavoro attenersi ai 15 giorni residuali di cui al “Collegato Lavoro” (comunque inderogabili), in luogo dei termini previsti per il procedimento sanzionatorio, considerata l’assenza nella procedura delle dimissioni per fatti concludenti di quegli appositi contrappesi previsti dall’art. 7, L. n. 300/1970.
In secundis, applicando alla diversa fattispecie delle dimissioni per fatti concludenti la disciplina precipua per l’alveo disciplinare sancita dal Ccnl, ci si scontrerebbe con quei principi, emersi nel diritto vivente, che inibiscono l’utilizzo dell’analogia e dell’interpretazione estensiva al cospetto dei dettami di fonte contrattual-collettiva.
Sul punto, ci si richiama a noti principi individuati dalla giurisprudenza, laddove è chiarito che “In ordine, poi, ai criteri di interpretazione di un contratto collettivo, questa Corte ha già affermato che, in considerazione della sua natura privatistica, vanno applicate le disposizioni dettate dagli artt. 1362 c.c. e segg.. Coerentemente è stato da gran tempo escluso il ricorso all’applicazione analogica (Cass. n. 7519 del 1983; Cass. n. 5726 del 1985; Cass. n. 6524 del 1988), “atteso che anche nel contratto collettivo le disposizioni in esso contenute conservano pur sempre la loro originaria natura contrattuale e non consentono conseguentemente il ricorso all’analogia, che è un procedimento di integrazione ermeneutica consentito, ex art. 12 preleggi, con esclusivo riferimento agli atti aventi forza o valore di legge“” (Cass. 7 maggio 2020, n. 8621), non potendosi nemmeno ravvisare, ai fini invece di un’eventuale interpretazione estensiva delle precipue disposizioni del contesto sanzionatorio, quella tipica ‘”inadeguatezza per difetto” dell’espressione letterale adottata dalle parti rispetto alla loro volontà, inadeguatezza tradottasi in un contenuto carente rispetto all’intenzione” (ibidem)che la legittimerebbe, atteso che si è in presenza di una fattispecie – quella delle dimissioni implicite – di nuova introduzione. Tali operazioni, a ben osservare, introdurrebbero conseguenze che fuoriescono dalla reale volontà delle parti firmatarie (nel caso di specie, la volontà evidentemente è quella di ricondurre il procedimento sanzionatorio correlato all’assenza ingiustificata all’intelaiatura di protezioni, garanzie e conseguenze costruita per l’ambito disciplinare dall’art. 7, L. n. 300/1970 e dalle disposizioni ad esso correlate). Peraltro, è necessario prestare attenzione al fatto che i contratti collettivi, talora, correlano a determinati periodi di assenza ingiustificata ulteriori conseguenze diverse dal recesso del rapporto di lavoro (cfr. art. 56 Ccnl piccola e media industria alimentare): in questi casi, dando credito alla tesi secondo cui è possibile “pescare” dalle disposizioni negoziali già esistenti – ma non apposite – del Ccnl, quali sarebbero i periodi di assenza ingiustificata da prendere in considerazione al fine di attivare la procedura di cui all’articolo 26, comma 7-bis, del D.Lgs. n. 151/2015? Quelli validi per il licenziamento o quelli indicati per altri fini? Non vi è risposta e, nei fatti, si configurerebbe in quest’ottica un’autonomia eccessiva, una perigliosa arbitrarietà, in capo agli stakeholders del lavoro.
In tertiis, la sentenza di Trento, a un’attenta riflessione, risulta essersi semplicemente attenuta al petitum della controversia, laddove tanto il convenuto prima (all’avvio della procedura), quanto la ricorrente poi (in sede giudiziale), hanno considerato il termine previsto dall’art. 238 del Ccnl Terziario, distribuzione e servizi, relativo all’ambito disciplinare, utile ai fini della procedura ex art. 19 della L. n. 203/2024. Peraltro, come accennato, la sentenza ha disconosciuto la procedura delle dimissioni per fatti concludenti, riconducendo invece il tutto a una “cessazione del rapporto avvenuta per volontà della società datrice”, ossia a un licenziamento.
Orbene, è chiaro che il classico percorso lavoristico che caratterizzerà la (lettura della) nuova disposizione (in un connubio di giurisprudenza, eventuali ulteriori interventi normativi, negoziali e di prassi), potrà anche consegnare sfumature differenti alla questione, ma, ad oggi, per lo scrivente, il più ragionevole comportamento, ossia quello opportunamente prudenziale, risulta essere quello indicato, a più riprese, dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali.
Marco Tuscano
Consulente del Lavoro
Giornalista pubblicista
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