Dai mestieri ai luoghi di lavoro e ritorno. Un punto di vista storico per ripensare la rappresentanza e le sue logiche di aggregazione

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Bollettino ADAPT 15 febbraio 2021, n. 6

 

Le trasformazioni del lavoro connesse alla diffusione della c.d. quarta rivoluzione industriale, ulteriormente accelerate dalla pandemia da Covid-19, rischiano di mettere in crisi forme di rappresentanza ancora legate all’utilizzo di categorie, concetti e soprattutto schemi organizzativi ereditati dal secolo scorso. Non solo. Nel contesto dei moderni mercati transizionali del lavoro, contraddistinti da una continua integrazione e successione tra fasi di impiego, formazione e schemi contrattuali, guardare al lavoro con le lenti del passato significa non vedere letteralmente una larga componente del mercato del lavoro che ha dato luogo a una oramai estesa e variegata forma di rappresentanza delle nuove professionalità non riconducibili al lavoro dipendente  (si veda L. Casano, Contributo all’analisi giuridica dei mercati transizionali del lavoro, ADAPT University Press, 2020).

 

Peter Ackers, in un recente contributo relativo al contesto angolosassone (Trade Unions as Professional Associations, in S. Johnstone, P. Ackers (a cura di), Finding a voice at work. New Perspective on Employment Relations, Oxford University Press, 2015, pp. 95-126) ha bene evidenziato come, sia ancora oggi pienamente operativo e diffuso un approccio culturale fondato su quella che si potrebbe definire un’ontologica contrapposizione tra gli interessi dei datori di lavoro e dei lavoratori, orientata primariamente attorno alla contrattazione del valore economico dello scambio tra ore di lavoro e retribuzione. Eppure, all’origine dell’esperienza sindacale non sta tanto un primario desiderio di contrapporsi al potere imprenditoriale, quanto piuttosto una comune appartenenza “di mestiere”, basata sulla condivisione di un corpus di conoscenze e competenze, e di comuni obiettivi e desideri professionali. Ed è proprio da qui, da questa “appartenenza di mestiere”, che l’autore invita a ripensare il ruolo del sindacato nella società contemporanea, un ruolo sempre più influenzato anche dai rapporti che riesce a stabilire con i datori di lavoro, i lavoratori stessi, lo Stato, e l’opinione pubblica.

 

Il primo ostacolo, per rinsaldare questi rapporti e maturare questa nuova rappresentanza, è quindi l’ideologia, ancora oggi pienamente operativa, che sta alla base di molte riflessioni – e azioni concrete – sul e del sindacato. È quindi necessario ripensare a cos’è il sindacato, oggi, e quali sono gli interessi che vuole tutelare, e quale è il suo ruolo nella promozione della crescita e dello sviluppo socioeconomico. Secondo Ackers, il concetto di “professione” può essere applicato a molti lavori, oggi, e può quindi essere da questa solida base che si può costruire nuove forme di rappresentanza veramente efficaci. Alla base di questo modello sta il riconoscimento di una forte identità occupazionale di ogni mestiere e delle competenze ad essa connesse, che genera poi un modello di azione sindacale incentrata sul dialogo e sulla partnership con i datori di lavoro, lo Stato e l’opinione pubblica, finalizzata all’armonizzazione di interessi diversi ma non contrapposti: «Una strategia professionale suggerisce di trasformare le occupazioni passive in professioni attive, seguendo le orme della middle class. La partnership è un elemento centrale perché i professionisti si assumono una certa responsabilità non solo per la qualità del lavoro ma anche per il successo dell’organizzazione e del servizio che fornisce» (p. 122).

 

Un ragionamento analogo è stato sviluppato in uno studio più risalente, condotto da Chris Benner sulle forme di rappresentanza sorte nella Silicon Valley americana (‘Computers in the Wild’’: Guilds and Next-Generation Unionism in the Information Revolution, in International Review of Social History, 48, 2003, pp. 181–204.). Secondo Benner gli impatti della rivoluzione digitale sul mondo del lavoro mettono in crisi le forme “tradizionali” di rappresentanza, ereditate dal contesto industriale e la cui forza poggiava sulla prossimità fisica di lavoratori occupati negli stessi settori. Lo stesso ragionamento potrebbe essere riproposto oggi, con la sempre più ampia diffusione di forme di lavoro a distanza. Lo studio condotto evidenzia come il luogo di lavoro non è più il punto aggregante attorno al quale costruire forme di solidarietà e di rappresentanza sindacale a lungo termine, perché sempre più spesso sono adottate nuove forme e modalità di lavoro, anche a distanza, e i lavoratori passano più rapidamente da un impiego all’altro, elemento che contraddistingue i mercati transizionali del lavoro sui quali ci si è già soffermati. Inoltre, le dinamiche del mercato del lavoro territoriale oggetto dell’indagine erano primariamente determinate dalle competenze possedute dai lavoratori, che sempre più frequentemente cambiavano impiego, anche attraverso forme di lavoro flessibili e in diversi settori: ed è proprio questa mobilità, unita al costante aggiornamento delle proprie competenze, che rappresenta una degli elementi determinanti l’innovazione diffusa a livello territoriale.

 

In questo contesto le forme “classiche” di rappresentanza vanno in crisi. Non si tratta più di tutelare interessi esclusivamente economici ed incentrati sui mercati interni delle aziende, ma accompagnare i professionisti nelle loro transizioni, promuoverne la professionalità certificando le competenze possedute, e così facendo tutelare gli interessi anche di datori di lavoro e consumatori. Benner nota contestualmente a questo declino il sorgere di nuove forme di aggregazione, informali e formali, di lavoratori che svolgono le stesse occupazioni, o che si trovano a lavorare con tecnologie simili. Sono, queste, vere e proprio associazioni “professionali”, contraddistinte – come nel modello proposto da Ackers – da precise identità occupazionali costruite a partire da un corpus di competenze e conoscenze condivise e in costante aggiornamento.

 

I lavori di Ackers e Benner (e, in Italia, il lavoro seminale di Lilli Casano) invitano quindi a ripensare la rappresentanza a partire da una valorizzazione dell’identità occupazionale dei mestieri e delle competenze possedute dai lavoratori, con l’obiettivo di integrare – e non necessariamente superare – un modello ancora oggi operativo e in parte determinato da una cultura e da un’ideologia che pensano come necessariamente contrapposti gli interessi di impresa e lavoro, e di tutelare le molteplici transizioni occupazionali a partire dalla centralità e dalle messa in trasparenze delle competenze possedute dai lavoratori.

 

Assente, in queste riflessioni, è l’apprendistato, che pure era, nel contesto preindustriale al quale alcune di queste associazioni professionali esplicitamente si richiamano, la base per la costruzione e il governo di mercati incentrati sulla condivisione delle conoscenze dei lavoratori e sulla propagazione dell’innovazione. Ed è proprio il ripensamento di questo strumento che può fornire alla rappresentanza, oggi, una chiave di lettura dei moderni processi di trasformazione e spunti utili per il ripensamento del proprio ruolo economico e sociale.

 

Già oggi esistono sperimentazioni interessanti di utilizzo dell’apprendistato come sistema per la diffusione dell’innovazione, soprattutto nelle aziende meno strutturate, come quella seguita da Paul Lewis in Inghilterra (P. Lewis, Developing Technician Skills for Innovative Industries: Theory, Evidence from the UK Life Sciences Industry, and Policy Implication, in British Journal of Industrial Relations, 1/2020 pp. 1-27). Questo autore ha seguito l’implementazione di percorsi di apprendistato in alcune aziende del settore delle biotecnologie, mostrando come la “doppia formazione” che gli apprendisti ricevevano – al lavoro, e presso l’istituzione formativa – permetteva loro di guadagnare competenze tecniche e gestionali in grado di favorire quella che viene definitiva, in letteratura, “capacità di assorbimento” dell’innovazione: quest’ultima dipende dalla disponibilità di lavoratori dotati di competenze utili a gestire e concretamente implementare nuove tecnologie particolarmente innovative. Per propagare processi tecnologici innovativi è quindi utile e necessario formare nuove figure ibride capaci di dialogare con il sapere teoretico e formale, e dotate di competenze pratiche e tecniche (in tema si veda, M. Colombo, Apprendistato e IV rivoluzione industriale: una lezione dal passato, in Professionalità Studi n. 2, 2020, pp. 5-35).

 

Competenze e figure ibride costruite attraverso l’apprendistato duale non si limitano, però, ad incrementare la capacità di assorbimento aziendale. Favoriscono anche lo sviluppo di quella che viene definita, da Rosenberg (in R. Nelson, N. Rosenberg, Technical Innovation and National Systems, in R. Nelson, (a cura di), National Systems of Innovation: A Comparative Study, Oxford University Press, 1993), l’innovazione “incrementale”, che si differenza da quella “radicale” per il suo prevedere piccoli miglioramenti, tecnologici o organizzativi, di continuo sviluppo, senza l’introduzione di tecnologie o metodi produttivi completamente nuovi. L’apprendista correttamente formato, cioè dotato di competenze ibride, che integrano saperi di matrice differente e dotato di un metodo per declinarle sartorialmente – quasi come un moderno artigiano – sulle specifiche esigenze aziendali, non solo permette quindi l’adozione di nuove tecnologie grazie alle sue capacità tecniche e gestionali, ma può anche contribuire a generare nuova innovazione, di un tipo però differente da quello a cui rimandano i principali studi sull’argomento.

 

Tratto comune di queste esperienze è l’assenza di un ruolo attivo da parte della rappresentanza, un ruolo che, agganciato a quel ripensamento proposto nelle riflessioni di Ackers e Benner, potrebbe esserne il primo fattore di sviluppo e concreta attivazione. L’apprendistato, inteso non solo come contratto ma come vero e proprio sistema per la costruzione delle professionalità, ben si lega ad un’idea di rappresentanza basata su un’identità di mestiere e incentrata alla valorizzazione delle competenze dei lavoratori, così come sull’armonizzazione degli interessi di questi con quelle delle imprese, come accadeva nel contesto preindustriale.

 

Questa stessa rappresentanza potrebbe inoltre, attraverso questo rinnovato protagonismo nella gestione delle transizioni occupazionali e, in particolare, dell’entrata dei giovani nel mondo del lavoro attraverso l’apprendistato, ricoprire un ruolo centrale nella diffusione dell’innovazione, a livello territoriale, favorendone, come si visto, l’adozione grazie alla costruzione di percorsi duali e ibridi, capaci di fornire ai lavoratori, e quindi anche alle imprese e ai territori, le competenze per poter adottare, implementare, gestire e sviluppare processi di innovazione e di crescita, economica e sociale. Un’innovazione quindi non solo favorita, ma attivamente governata dalla rappresentanza, a partire dall’investimento nelle competenze dei giovani attraverso l’apprendistato e i virtuosi meccanismi di integrazione tra saperi e conoscenze che permette.

 

Matteo Colombo

ADAPT Junior Fellow

@colombo_mat

 

Dai mestieri ai luoghi di lavoro e ritorno. Un punto di vista storico per ripensare la rappresentanza e le sue logiche di aggregazione