Così è (se vi pare): il dibattito sul salario minimo al confronto con i dati Istat

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Bollettino ADAPT 29 maggio 2023 n. 20
 
Gli ultimi dai Istat in materia di “Contratti collettivi e retribuzioni contrattuali”, pubblicati il 28 aprile e relativi al I trimestre 2023, permettono di ritornare sul tema del salario minimo, ancora al centro del dibattito.
 
Alla fine di marzo 2023, i 41 contratti collettivi nazionali in vigore per la parte economica riguardano circa 5,5 milioni di dipendenti, il 44,4% del totale, mentre i contratti in attesa di rinnovo sono 32 e coinvolgono circa 6,9 milioni di dipendenti, il 55,6% del totale (si evidenzia che l’indagine Istat è effettuata su un totale di 73 CCNL che coprono circa 12 milioni di lavoratori).
Il tempo medio di attesa di rinnovo per i lavoratori con contratto scaduto, tra marzo 2022 e marzo 2023, è diminuito da 30,8 a 23,4 mesi. Tale dato resta comunque superiore al marzo 2021 quando si registrava un tempo di attesa di 22,6 mesi (ne avevamo già parlato lo scorso anno; cfr. F. Lombardo, Alcune riflessioni sul Rapporto Istat 2022: dalle norme alla realtà dei dati, in Bollettino ADAPT 20 luglio 2022, n. 28).
Il rapporto Istat ci restituisce comunque un dato che dovrebbe sollecitare l’attenzione dei più a riflettere sull’impatto (negativo) dei periodi di vacanza contrattuale sui livelli salariali.
 

Ulteriore dato che ha inciso sfavorevolmente sui salari, in seguito alla crisi energetica dovuta alla guerra, è stato quello della crescita dei prezzi. Nonostante essa abbia registrato un rallentamento nel primo trimestre 2023, la differenza tra la dinamica dell’inflazione (IPCA) e quella delle retribuzioni contrattuali è comunque rimasta superiore ai sette punti percentuali.
 
Nonostante questi fattori la retribuzione oraria media nel periodo gennaio-marzo 2023 è cresciuta del 2,2% rispetto allo stesso periodo del 2022. Sulla base delle disposizioni definite dai contratti in vigore alla fine di marzo, secondo il rapporto dell’Istat l’indice delle retribuzioni contrattuali orarie per l’intera economia registrerebbe un incremento del 2,2% nel semestre aprile-settembre 2023 e del 2,1% nella media del 2023.
 
In aggiunta a questi dati, si evidenzia che alcuni recenti studi (B. Fanfani, Salari, diseguaglianze e contrattazione collettiva negli anni recenti, Menabò n. 191/2023), mostrano come l’andamento dei salari nominali per giornata lavorata nel periodo 2006-2021 (in condizioni “normali”, prima della pandemia e prima della crisi energetica ingenerata dalla guerra in Ucraina) sia cresciuto in modo abbastanza consistente e che questa crescita sia stata addirittura più rapida della crescita dei prezzi nello stesso periodo. Allo stesso tempo questi studi riscontrano che nel periodo 2006-2021 la produttività non è cresciuta in modo altrettanto rapido rispetto ai salari.      
 
Perché, allora, nel Rapporto Istat 2022 (in attesa del Rapporto 2023) scopriamo che circa 4 milioni di dipendenti (il 29,5 per cento del totale), sono a bassa retribuzione annua?

Come si conciliano questi dati con quelli sopra riportati?
 
Leggendo il Rapporto Istat si scopre che quasi 2/3 dei lavoratori con bassa retribuzione annua sono assunti con tipologie contrattuali flessibili.

L’Istat rileva anche che dei 1,3 milioni di dipendenti a bassa retribuzione oraria, soltanto 282mila sono lavoratori standard (tempo pieno e indeterminato).
 
Dunque, sulla base di questi numeri si può davvero affermare che il “lavoro povero” è legato a salari contrattuali orari bassi?

Ciò che sembra potersi evincere è che più di 1 milione di lavoratori non riescano a lavorare durante il corso dell’intero anno o a lavorare a tempo pieno.
Peraltro, va sottolineato che alcuni ritengono che su questi dati incidano fortemente il lavoro irregolare (anche attraverso il così detto “nero a metà”) e il “falso” lavoro autonomo (S. Spattini, M. Tiraboschi, Questione salariale: guardare la luna, non il dito. A proposito di dinamiche retributive, salario minimo e dei presunti 1.000 contratti collettivi nazionali di lavoro, in Bollettino ADAPT 9 maggio 2022, n. 18).
 
L’aumento dei contratti di lavoro di breve durata sembra quindi essere un fattore rilevante che concorre a determinare i livelli retributivi annuali decisamente ridotti di cui tanto si parla nel dibattito pubblico.
Stando così le cose, o meglio per come la scienza statistica le mostra, aumentando la paga oraria per legge i dati sulla retribuzione annuale miglioreranno?

Parrebbe di no dato che la retribuzione annuale è legata a tre componenti: retribuzione oraria, durata contrattuale e monte ore lavorate.  
 
Un’ulteriore riflessione da fare riguarda l’utilizzo di questo tipo di dati statistici e la loro incidenza sul dibattito pubblico. Per ciascun livello di inquadramento del personale dipendente previsto nei contratti collettivi nazionali di lavoro osservati dall’indagine Istat viene calcolata, mensilmente, la retribuzione annua pro capite spettante sulla base delle misure tabellari in vigore. L’indagine tiene conto degli elementi retributivi presenti nei contratti collettivi che hanno carattere generale e continuativo, comprese le mensilità aggiuntive e le altre erogazioni corrisposte soltanto in alcuni periodi dell’anno.

Sono esclusi, però, gli straordinari, gli emolumenti stabiliti dalla contrattazione integrativa aziendale o decentrata e gli importi corrisposti a titolo di arretrati e una tantum (d’altronde Istat non potrebbe rilevare questi dati).

Talune esclusioni sono non di poco conto, considerando che nel nostro ordinamento il compito di collegare quote di salario alla produttività è affidato alla contrattazione di secondo livello.
È possibile parlare di retribuzione facendo riferimento a questo tipo di dati, escludendo totalmente l’incidenza di alcune voci sulla busta paga dei lavoratori? Qualche dubbio resta, anche perché una recente indagine della FIM-CISL evidenzia come i premi di risultato costituiscano una quota rilevante di retribuzione per i lavoratori del settore (cfr. FIM-CISL, Analisi dei premi di risultato 2022 nelle aziende metalmeccaniche, 2022).
 
Alla luce dei dati emersi dal rapporto Istat, ci sembra opportuno fare alcune considerazioni e porre alcune domande.

Piuttosto che intervenire sul salario minimo per via legislativa, la strada giusta per trovare soluzioni concrete non potrebbe essere rappresentata dal coinvolgimento delle parti sociali?

Queste ultime, ad esempio, da tempo chiedono un intervento strutturale e sistemico sul costo del lavoro invece che misure eccezionali, temporanee e con un impatto graduale e parziale (basta pensare agli incentivi all’occupazione e agli esoneri contributivi delle ultime leggi di Bilancio e anche del recentissimo decreto legge n. 48/2023).
 
Per trattare il tema dei salari, dunque, occorre necessariamente delineare, attraverso i dati, un quadro complesso sul quale incidono andamento economico, vacanza contrattuale, inflazione, produttività, ruolo delle parti sociali, incentivi economici, cuneo fiscale e contributivo.

Una legge sul salario minimo senza affrontare queste questioni potrebbe davvero essere efficace?
 
Francesco Lombardo
Scuola di dottorato in Apprendimento e innovazione nei contesti sociali e di lavoro

ADAPT, Università degli Studi di Siena

@franc_lombardo

Così è (se vi pare): il dibattito sul salario minimo al confronto con i dati Istat