Certificazione delle competenze: quale significato e quale percorso nel volontariato?

Seppur risulti piuttosto diffusa la convinzione che ogni situazione possa in sé costituire un momento di apprendimento, c’è ancora una certa reticenza culturale nel considerare l’apprendimento non formale e informale alla pari di quello formale. Secondo la definizione data nella Raccomandazione del Consiglio dell’Unione europea del 2012 per apprendimento formale si intende quello erogato in un contesto organizzato e strutturato, specificamente dedicato all’apprendimento, che di norma porta all’ottenimento di qualifiche, generalmente sotto forma di certificati o diplomi. L’apprendimento non formale è erogato mediante attività pianificate (in termini di obiettivi e tempi) con una qualche forma di sostegno all’apprendimento mentre per apprendimento informale si intende quello risultante dalle attività della vita quotidiana legate al lavoro, alla famiglia o al tempo libero non strutturato in termini di obiettivi, di tempi o di risorse dell’apprendimento.
 
Nella categoria dell’apprendimento informale rientra certamente il volontariato che è anche tra le forme di attività più difficilmente considerata come un momento formativo effettivo. Eppure, scorrendo i principi fondanti presenti nella Carta dei Valori del Volontariato (frutto di una riflessione sulle diverse radici culturali, religiose e ideali del volontariato italiano, promossa dalla Federazione italiana del volontariato e Gruppo Abele nel 2001) si legge: «il volontariato propone a tutti di farsi carico, ciascuno per le proprie competenze, tanto dei problemi locali quanto di quelli globali e, attraverso la partecipazione, di portare un contributo al cambiamento sociale. In tal modo il volontariato produce legami, beni relazionali, rapporti fiduciari e cooperazione tra soggetti e organizzazioni concorrendo ad accrescere e valorizzare il capitale sociale del contesto in cui opera».
Se un esperto nell’ambito delle Risorse umane leggesse questa frase, probabilmente assocerebbe queste parole a skills specifiche maturate grazie a queste attività. Si può da subito dunque intuire che il volontariato può essere occasione di crescita non solo personale ed emotiva, ma anche professionale grazie alle attività svolte che permettono lo sviluppo e l’incremento di competenze richieste anche dal mercato del lavoro.
 
Una ricerca commissionata dallo Youth Forum e condotta dall’ Università di Bath e GHT Consulting (Study on the impact of Non formal Education in youth organisations on Young People’s Empoyability, 2013) che ha coinvolto più di 1000 giovani e circa 245 organizzazioni giovanili, afferma che molte competenze acquisite durante esperienze di volontariato risultano essere richieste dal mercato del lavoro, in particolare le competenze comunicative, organizzative, decisionali, la capacità di lavorare in team, le competenze linguistiche.
È dunque necessario che i sistemi di validazione e certificazione delle competenze – contribuendo alla trasparenza e alla trasferibilità dei risultati dell’apprendimento in altri ambiti quale, ad esempio, quello lavorativo – siano in grado di rendere riconoscibili anche i risultati degli apprendimenti maturati nell’ambito del volontariato. L’utilizzo sistematico di sistemi di certificazione delle competenze sviluppate nelle esperienze di volontariato contribuirebbe anche a migliorare la professionalità degli operatori del settore, offrendo la possibilità a coloro che partecipano alle attività di vedere riconosciuto e spendibile quanto fatto.
 
La diffusione di pratiche di validazione e certificazione delle competenze nell’ambito del volontariato, d’altra parte, non trova ostacoli solo nel pregiudizio relativo alla superiorità della formazione formale. Gli studi europei rivelano, infatti, una certa reticenza da parte delle organizzazioni di volontariato a presentare la loro attività quale possibilità di crescita non solo umana ma anche professionale, temendo possano venir meno la spinta e la ragione ideale proprie del volontariato (quale gesto di gratuità), a scapito di un desiderio di crescita professionale.
 
Ci sono poi altri tre ostacoli che rendono la certificazione delle competenze un processo ancora difficoltoso in questo contesto.
Il primo consiste nell’eccessiva burocratizzazione di questa procedura, spesso gestita in modo centralistico dalle autorità regionali o nazionali e che spaventa gli operatori del sociale e del volontariato. Il sistema italiano è certamente un esempio di una procedura pubblicistica che rende difficile lo sviluppo e l’implementazione del sistema di certificazione.
 
Il decreto legislativo 16 gennaio 2013 n. 13 sulla validazione degli apprendimenti non formali e informali e sull’individuazione degli standard minimi di servizio del sistema nazionale di certificazione delle competenze prevede che un ente titolato, soggetto pubblico o privato autorizzato dall’ente pubblico titolare, sia responsabile dell’individuazione, la validazione e la certificazione delle competenze, attraverso un iter che, alla ricerca di una oggettività e terzietà molto difficile da raggiungere, rischia di rallentare il processo e disincentivarne l’utilizzo, in quanto le procedure appaiono poco accessibili e difficilmente comprensibili dai non addetti ai lavori (per un approfondimento si veda U. Buratti, L. Casano, L. Petruzzo (a cura di), Certificazione delle competenze. Prime riflessioni sul decreto legislativo 16 gennaio 2013, n. 13, ADAPT LABOUR STUDIES e-Book series n. 6)
 
Il secondo ostacolo allo sviluppo di un funzionale ed efficace sistema di validazione e certificazione, non solo nel nostro Paese, consiste nella mancanza di standard di attestazione comuni tra le varie tipologie di apprendimento, in quanto nelle esperienze di apprendimento non formale e informale manca un legame con i quadri nazionali ed europei delle qualifiche.
Il Comitato economico e sociale europeo nel parere dato in merito alla Comunicazione della Commissione «Ripensare l’istruzione: investire nelle abilità in vista di migliori risultati socioeconomici» del 2013, invita gli Stati membri a «riconoscere e valorizzare, in modo creativo e innovativo, gli apprendimenti non formali, rendendo più visibili le competenze acquisite al di fuori del sistema formale, favorendo la complementarità tra l’apprendimento formale e quello non formale».
Le parole “creativo” e “innovativo” sono significative, in quanto segnalano la necessità di rispettare e valorizzare la peculiarità di ciascun ambito, senza appiattire la ricchezza dell’esperienza maturata nell’ambito non formale e informale. È però al contempo altrettanto importante favorire una complementarietà e un’integrazione dei contesti di apprendimento.
 
Nell’attuale prassi di validazione e certificazione degli apprendimenti nelle esperienze di volontariato si nota la tendenza all’utilizzo del metodo dichiarativo basato sull’autovalutazione fatta dai volontari stessi o, in alternativa, del metodo del portfolio che prevede interviste e una valutazione fatta da una terza parte (un centro di valutazione o altri soggetti). Il metodo dichiarativo risulta essere quello maggiormente utilizzato e il suo utilizzo è spesso caldeggiato nel settore perché incentiva una riflessione su di sé e una presa di coscienza delle proprie capacità. È questo un aspetto importante nella crescita della persona, ma tale metodo risulta poco imparziale e non sempre valutato positivamente nel mercato del lavoro. A differenza dell’auto valutazione, il metodo del  portfolio è più imparziale e affidabile in quanto prevede una controparte a garanzia della veridicità di quanto dichiarato.
 
Gli organismi europei hanno creato e diffuso numerosi strumenti che vanno in questa direzione: sono i cosiddetti documenti Europass (CV, language passport, mobility, certificate and diploma) e il nuovo Europass Skills Passport, un portale on line che permette di creare il proprio portfolio nel quale inserire la documentazione necessaria che attesti quanto fatto nei diversi ambiti di apprendimento. Per il volontariato è stato creato uno strumento chiamato Europass Mobility for Volunteers che registra tipologia e durata del lavoro svolto, competenze, conoscenze e abilità. Tali strumenti, pensati come supporti per la registrazione e la trasferibilità delle competenze, non per la loro validazione, certamente sono importanti, ma non sufficienti per poter parlare di un reale processo di certificazione in quanto rimane da sciogliere il nodo della mancanza di standard comuni riconducibili ai quadri nazionali delle qualifiche. Vi sono esempi di best practice, quale il pass formativo ProfilPASS tedesco che, attraverso un percorso strutturato, accerta e documenta le competenze legate alle attività della vita quotidiana, quindi tutte quelle competenze non validate attraverso percorsi formali. Anche in questo caso risulta tuttavia assente un’integrazione reale e riconosciuta in quanto l’attuale quadro delle qualificazioni tedesco non include le competenze acquisite nei contesti formali ed informali, nonostante il ruolo centrale nel sistema educativo tedesco dell’apprendimento basato sull’esperienza. Inoltre, gli strumenti creati nei vari Paesi che permettono la validazione delle competenze hanno strutture tra loro diverse: molti richiedono solo di indicare tipologia e periodo in cui si colloca l’esperienza e una generica descrizione e autovalutazione delle competenze maturate. Certamente l’utilizzo di strumenti per la validazione con un approccio per competenze faciliterebbe il percorso di integrazione dei diversi sistemi di apprendimento.
 
Nella consapevolezza di dover cercare vie di mezzo tra la dimensione dell’autovalutazione (più coerente con le esperienze di volontariato per la sua componente autoriflessiva) e quella della validazione esterna sembra, dunque, necessario rafforzare il dialogo e il confronto tra i vari attori coinvolti nel processo di validazione e certificazione, in particolare enti nazionali/regionali della certificazione, aziende, organizzazioni del terzo settore, esperti di formazione, aziende e parti sociali.
 
Nell’inventario europeo del 2007 sulla convalida dell’apprendimento non formale e informale (repertorio contenente informazioni sulle pratiche di convalida nei Paesi europei, aggiornato alla fine del 2014) si legge che gli operatori del terzo settore (in particolare del volontariato) tendono a essere fruitori e sviluppatori di metodologie per la validazione delle competenze, ma non sono coinvolti nel processo di certificazione. Ci sono alcune buone pratiche che dimostrano l’efficacia di partenariati tra pubblico, privato e terzo settore sia per il dialogo sulle metodologie di validazione e certificazione, sia per la creazione di percorsi che permettano il riconoscimento di crediti per attività di formazione, in particolare di corsi formativi.
 
In contesti nazionali in cui l’incertezza normativa e l’eccessivo formalismo burocratico non aiutano la creazione di momenti di confronto e implementazione ai vari livelli istituzionali di sistemi di certificazione, una leva strategica può essere la possibilità di sperimentare strumenti che, seppur non sviluppati in contesti istituzionali, contribuiscono alla creazione di partenariati strategici tra i diversi stakeholder interessati. Il nuovo programma quadro europeo Erasmus+ per l’educazione e la formazione, implementato attraverso numerose call for proposal, ha tra le priorità lo sviluppo di progetti congiunti transnazionali per il miglioramento del sistema di certificazione delle competenze non formali e informali. Anche nella scorsa programmazione, in particolare grazie al programma Leonardo da Vinci (Lifelong Learning Programme), sono stati finanziati numerosi progetti che hanno portato alla creazione e scambio di best practices in questo campo (per una panoramica completa si veda Validazione delle competenze da esperienza: approcci e pratiche in Italia e in Europa, ISFOL, 2013). La partecipazione a progetti comunitari può essere una strada per un dialogo e una sperimentazione tra stakeholder della società civile e del mondo del volontariato, dai cui risultati si spera possano emergere suggerimenti utili per successive e rapide decisioni e azioni istituzionali volte alla semplificazione e ad un maggiore “ancoraggio alla realtà” dei sistemi.
Il Consiglio dell’Unione europea ha infatti invitato gli Stati Membri a istituire entro il 2018 una modalità per la convalida dell’apprendimento formale e informale per facilitare il conseguimento di una qualifica completa o parziale sulla base delle convalida degli apprendimenti. Si rende dunque  necessario per le istituzioni dei Paesi membri procedere rapidamente nella direzione di una revisione o implementazione dei sistemi di certificazione e in questo processo i progetti, le esperienze e le riflessioni sviluppate dalle associazioni di volontariato potranno rappresentare un contributo prezioso.
 
Alessia Zanotti
Scuola di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro
ADAPT, Università degli Studi di Bergamo
@AleZanotti88
 
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