Bassa intensità e scarsa qualificazione: alcune evidenze sull’occupazione dal XX Rapporto CNEL

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Bollettino ADAPT 18 febbraio 2019, n. 7

 

Nel 2018 il tasso di occupazione in Italia è tornato ai livelli pre-crisi, collocandosi attorno al 59% come nel 2008. Questo è uno dei primi dati da cui parte il XX Rapporto sul mercato del lavoro e sulla contrattazione collettiva, elaborato dal CNEL in collaborazione con ANPAL e INAPP e pubblicato a inizio febbraio. Si potrebbe concludere che la più lunga e profonda crisi del mercato del mercato del lavoro italiano della sua storia recente sia stata superata, non fosse che si tratta del tasso di occupazione più basso tra i paesi dell’Europa occidentale, Grecia esclusa, e che la ripresa dell’occupazione è più fragile di quanto possa apparire.

 

Tra il 2008 e il 2018, infatti, il volume delle ore lavorate non è cresciuto di pari passo con quello delle persone statisticamente occupate, poiché “dei quasi 1.300.000 posti di lavoro che hanno riportato l’occupazione al livello pre-crisi quasi il 30% sono a tempo parziale involontario”. Di conseguenza tra le persone occupate sono oggi molto più numerose, rispetto al 2008, quelle che lavorano a orario ridotto che quelle impiegate a tempo pieno (calate dell’8%). A tassi di occupazione simili, pertanto, corrisponde un’intensità dell’occupazione ben diversa. Questa tendenza, affermatasi in misura maggiore nel Mezzogiorno rispetto al Centro-Nord, rappresenta secondo gli autori un sintomo della persistente debolezza della domanda di lavoro in Italia.

 

Un ulteriore elemento riscontrato nel contesto italiano dagli autori del Rapporto è una polarizzazione dell’occupazione “asimmetrica al contrario”. La polarizzazione è un fenomeno che molti analisti osservano nelle economie sviluppate da quasi un quarto di secolo e consiste nella crescita congiunta della fascia più qualificata e di quella meno qualificata della forza lavoro e nella contemporanea riduzione della domanda di lavori cognitivi e routinari (middle-class jobs). L’anomalia italiana – e greca – è rappresentata dalla minore crescita dell’occupazione altamente qualificata (e remunerata) rispetto a quella poco qualificata, anche in questo caso con differenze territoriali lungo l’asse nord-sud.

 

Una delle possibili cause di questa traiettoria di polarizzazione è da ricercare nell’invecchiamento della popolazione italiana che, unitamente alla debole offerta di servizi di welfare nazionale in certi casi, ha comportato un aumento di domanda di lavoro scarsamente qualificato nel settore dei servizi alla persona. Un’altra spiegazione fa riferimento alla scarsa propensione all’innovazione delle PMI, che continuano a ricercare lavoratori a bassa qualifica e risultano meno interessate a profili di elevata qualificazione. A ciò si aggiungono la debole domanda di lavoro qualificato nel settore pubblico a seguito del blocco delle assunzioni (si pensi a sanità e istruzione ad esempio) e la diversa dinamica di ripresa dell’occupazione per settore: infatti, i settori che presentano oggi maggiori opportunità lavorative sono quello alberghiero, della ristorazione, del trasporto e della logistica, in cui è preponderante una domanda orientata a professioni di basso profilo. Questo tipo di polarizzazione è naturalmente intrecciato con l’intensità dell’occupazione, dal momento che l’orario di lavoro ridotto è più diffuso nella fascia meno qualificata, e testimonia il deficit strutturale di domanda di occupazione qualificata in Italia (che a sua volta contribuisce ad alimentare il fenomeno di “fuga di cervelli”).

 

Dal quadro generale fornito dal Rapporto, la nuova occupazione appare quindi caratterizzata da una connessione tra bassa intensità e scarsa qualificazione. Così come esiste una correlazione tra la lenta crescita di settori a elevata produttività e alto valore aggiunto (capaci di favorire la nascita di posti di lavoro a tempo pieno altamente qualificati) e i bassi investimenti statali in ricerca e sviluppo. Per superare le criticità enucleate nel Rapporto, gli studiosi e il presidente del CNEL suggeriscono di puntare sulla formazione di qualità di lavoratori e imprenditori e insistono sulla necessità di investimenti pubblici e privati soprattutto nei settori innovativi dell’economia: investimenti che se fossero valutati da istituzioni indipendenti acquisirebbero una legittimità tale da permettere di chiedere all’Europa di “scomputare le risorse dedicate a tali investimenti dal calcolo del deficit”.

 

Alla ripresa dell’occupazione ha contribuito la crescita, oltre che del part-time, delle assunzioni a tempo determinato, aumentate del 35% dal 2014 al secondo trimestre del 2018. Una crescita posta in relazione con la forte diminuzione dell’occupazione indipendente, “che prosegue ininterrotta dal 2004 essenzialmente per la forte caduta degli artigiani e dei piccoli commercianti”, e che alcuni cambiamenti nella normativa hanno contribuito ad accelerare. Gli autori citano a tal proposito la riforma Poletti del 2014 e la sua “liberalizzazione” del contratto a tempo determinato, l’abolizione dei contratti a progetto nel 2015 e la cancellazione dei voucher. Elementi che si combinano all’instabilità e alla debolezza percepita della ripresa economica, che orienta alcune imprese a optare per contratti di breve durata, più facili da interrompere in caso di necessità. La quota maggioritaria dei contratti di lavoro a termine non supera infatti i 12 mesi di durata ed è legata alla stagionalità o a necessità provvisorie dell’azienda. È poi possibile, sostengono gli autori, che l’obbligatorietà della causale dopo i primi 12 mesi e la riduzione della durata massima al tempo determinato previste dal Decreto Dignità avranno come effetto quello di diminuire ulteriormente la durata media dei contratti a termine.

 

La bassa intensità di lavoro e la breve durata dei contratti di lavoro fin qui descritte hanno contribuito allo sviluppo del “lavoro povero”. Una tendenza drammatica e non marginale che riguarda 2,2 milioni di famiglie, che si trovano a rischio povertà nonostante almeno un componente sia occupato. Se in una famiglia è presente un solo percettore di reddito, occupato solo per alcuni mesi dell’anno e con un orario ridotto, è facile capire come la famiglia in questione sia esposta al rischio di povertà e come lavoro povero e povertà, sebbene non perfettamente sovrapponibili, siano concetti tra loro collegati. Ma il fenomeno dei cosiddetti working poors riguarda anche i salari orari, dato che, si legge nel Rapporto, “in alcuni casi risultano inferiori ai minimi contrattuali dei livelli di inquadramento più bassi previsti dai contratti collettivi nazionali di settore”. Un abuso nella determinazione dei livelli contributivi che, secondo gli autori, potrebbe essere contrastato dall’introduzione di un salario minimo (su cui peraltro il Parlamento sta discutendo dopo la recente presentazione di un disegno di legge per la sua introduzione), misura che andrebbe ad affrontare il problema della povertà affiancandosi al reddito minimo garantito (“reddito di cittadinanza”) già istituito dal Governo.

 

Saverio Ascari

ADAPT Junior Fellow

@saverioascari

 

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