Lezioni di Employability/60 – Occupabilità: sintesi di talento e metodo

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Bollettino ADAPT 25 febbraio 2019, n. 8

 

Come aiutare i ragazzi delle superiori ad orientarsi nella scelta universitaria? Quali criteri mettere in campo? E ancora: ci sono dei corsi di laurea “giusti”, perché coerenti con quanto richiesto dal mercato del lavoro, e altri invece “sbagliati”? Oppure bisogna seguire solamente le proprie “passioni”? Cosa rende i giovani veramente “occupabili”? Il presente articolo nasce proprio dal dialogo avuto con un gruppo di studenti, e con i loro genitori, durante un evento finalizzato all’orientamento scolastico tenutosi a Bergamo la scorsa settimana.

 

Secondo una ricerca AlmaLaurea realizzata nel 2018, solo il 50,2% dei laureati ad un anno dal titolo ritiene che la laurea conseguita sia stata “efficace” per la loro entrata nel mondo del lavoro. Elevata è anche la percentuale di incoerenza tra percorso di studi e primo impiego. Infine, il 14,8% degli universitari iscritti al primo anno abbandona gli studi, oppure cambia ateneo o corso di laurea.  Sembra insomma che in alcuni casi l’università italiana non sia un percorso formativo efficace nel favorire le chance di accedere alla professione desiderata per i giovani che vi si iscrivono, i quali spesso sono delusi da questa esperienza. Riconosciute queste difficoltà, possiamo chiederci: come orientare, oggi, la scelta universitaria dei giovani? Quali criteri mettere in campo? E cosa rende veramente “occupabili”?

 

Per prima cosa, bisogna fare attenzione a non scegliere seguendo solamente le proprie “passioni”. La radice di questa parola rimanda a “passività”, a qualcosa che si subisce, del quale non si è protagonisti. Certo, non è possibile ignorare le proprie inclinazioni e i propri interessi: è però fondamentale non inseguire passioni momentanee, connotate da una grande componente emotiva, passata la quale col tempo, si rischia di rimanere delusi e spaesati. Più importante, allora, diventa la scoperta dei propri “talenti”. Con questo termine si intende la capacità di essere protagonisti della propria vita, il desiderio di rintracciare un senso e un significato per sé in ciò che si fa e nei propri interessi: coincide quindi con un lavoro, un impegno quotidiano, che non può essere misurato con un unico criterio uguale per tutti. Ogni giovane deve scoprire in sé la misura del proprio talento. Questa paziente opera si realizza prima di tutto lasciandosi interrogare da ciò che si vive, da ciò che si studia, da ciò che si incontra. Se non si fa esperienza prima di tutto di questa domanda su di sé, di questo desiderio di conoscenza, è impossibile scoprire e quindi coltivare i propri talenti, i quali sono poi fondamentali per la scelta universitaria, qualsiasi essa sia. Sia che si scelga, infatti, a partire dal desiderio di svolgere una determinata professione, o dall’interesse per una specifica materia, ciò che risulta determinante, nello studio come nel lavoro, è il costante impegno nella cura dei propri talenti, aprendosi quotidianamente alla realtà e a ciò che si vive, in classe come a casa, al lavoro come con gli amici.

 

Non basta, però, lasciarsi interrogare e coltivare queste domande: è necessario anche coinvolgersi con le cose, fare esperienza. E seguire dei maestri. In questo senso, è utile richiamare la testimonianza offerta da Giorgio Usai, in un’intervista realizzata cinque anni prima della morte, con un gruppo di dottorandi [E. Carminati, F. L. Monticelli e Y. Parpinchee, 2016]. Nel ricordare la sua gioventù, il “sindacalista d’impresa” sottolineava come la scoperta del suo talento fosse avvenuta guardando prima di tutto suo padre, Ispettore del Lavoro, quando la sera a cena raccontava la sua giornata. Ascoltando e appassionandosi a tematiche lavorative, Usai riconobbe nella sua esperienza qualcosa che andava oltre un interesse momentaneo. Non solo. Fu attraverso lo studio, e soprattutto grazie ad un metodo che valorizzava la consapevolezza nata dall’esperienza, che riconobbe la propria vocazione e la coltivò nel tempo, negli studi come nel lavoro. Ritorna quindi il tema della scelta: quali criteri adottare? Usai ci è d’aiuto: scoprire i propri talenti aprendosi alla realtà, lasciandosi incuriosire da ciò che si vive, e ascoltando chi è più grande di noi, e coltivarli attraverso un metodo capace di “leggere” nell’esperienza il senso di ciò che si sta studiando e vivendo. Solo infatti la combinazione di questi due fattori, talento e metodo, permette una formazione integrale della persona che la rende davvero occupabile nel mercato del lavoro. Non è scontato che, adottando questo approccio, la scelta dell’università risulti automaticamente un successo. Ci possono essere difficoltà, fallimenti, ripensamenti. La differenza la fanno però i criteri con cui viene presa una scelta, che sono poi gli stessi che ci accompagnano anche quando le cose non vanno come previsto, all’università e al lavoro. Una scelta che nasce da un lavoro su di sé, dalla scoperta dei propri talenti e da un metodo capace di farli crescere, è più efficace di qualsiasi percentuale di chance occupazionale legata ad un determinato percorso di studi.

 

A conclusione di un percorso formativo e scolastico, che porta ad acquisire sempre più competenze, a coltivare il proprio talento e alla conquista di un metodo si raggiunge e si incrementa infatti la propria occupabilità (employability). Questo termine è stato ampiamente utilizzato sin dagli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso per indicare e definire differenti situazioni, concetti e casistiche e oggi fa per lo più riferimento ad un approccio di matrice europea. In questa sede non si fa però riferimento alla concezione largamente diffusa nelle linee strategiche europee secondo le quali l’employability è intesa come una adattabilità individuale comprovata da un insieme di caratteristiche e skills individuali che fa leva sulla responsabilizzazione dell’individuo nel suo percorso di attivazione [Bifulco e Mozzana, 2016; Casano, 2018], ma ci si riferisce a questo concetto come alla tappa finale di un processo che porta l’individuo a disporre degli strumenti e delle competenze necessarie per potersi muovere nel sempre più variegato mercato del lavoro.

Questa interpretazione del concetto di occupabilità richiama il modello di “occupabilità interattiva” delineata da Caruso (2007) che, collegandola all’approccio delle capability di Amartya Sen, la definisce come: “una occupabilità che tenga conto della libertà di scelta delle persone di costruire un proprio personale progetto di lavoro cui si dà valore (capability for valuable work) e la capacità di conciliare il progetto di lavoro con il progetto di vita (capability to reconcile valuable work and valuable life) [Caruso, 2007: 22]”.

 

Affinché questo percorso di fatto si realizzi non è sufficiente la sola predisposizione e la volontarietà del singolo ma al contrario è bene che il contesto socio-territoriale nel quale è inserito lo porti ad attivare un percorso virtuoso di crescita e di sviluppo. È qui che emerge chiaramente l’importanza del contesto, degli stimoli e delle possibilità offerte.

 

È auspicabile a tal proposito, considerati anche i dati presentati in apertura, una maggiore integrazione tra il mondo della scuola e il mondo del lavoro attraverso l’implementazione di esperienze formative e costruttive di alternanza scuola-lavoro, tirocini curricolari stipulati tra imprese e università, apprendistati, ma anche di un maggior confronto tra esperti della scuola con professionisti d’impresa. Tale dialogo tra i due mondi favorirebbe un maggiore sviluppo di competenze, un apprendimento improntato sul “fare per imparare”, una crescita non solo formativa e professionale ma soprattutto personale e una maggiore consapevolezza delle criticità e potenzialità di un determinato ambiente di lavoro e professione. Questo percorso risulta vantaggioso e produttivo nel momento in cui i giovani sperimentano se stessi come protagonisti del processo educativo e non come meri fruitori passivi che subiscono scelte imposte dall’alto.

 

In questo processo che porta all’occupabilità svolgono un importante ruolo anche tutte le altre agenzie di socializzazione (formali ed informali) a partire dal fondamentale ruolo della famiglia, a quello del gruppo dei pari, dei gruppi sportivi e anche parrocchiali che aiutano il giovane a scoprire i propri talenti, i propri interessi e a coltivare le proprie passioni.

 

L’occupabilità è dunque un ponte tra la persona e il lavoro, sintesi di talento e metodo, che porta un giovane a non accettare qualsiasi lavoro a qualunque condizione ma ad avere una certa libertà di scelta per sperimentare l’amore verso il proprio lavoro di cui parlava Tino Faussone, il protagonista del libro “La chiave a stella” di Primo Levi: “se si escludono istanti prodigiosi e singoli che il destino ci può donare, l’amare il proprio lavoro (che purtroppo è privilegio di pochi) costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra: ma questa è una verità che non molti conoscono [Levi, 1978: 78-79]”.

 

Stefania Negri

ADAPT Junior Fellow

@StefaniaNegri6

 

Matteo Colombo

Scuola di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro

Università degli Studi di Bergamo

@colombo_mat

 

  • AlmaDiploma, Rapporto 2019 sulle scelte formative e la condizione occupazionale dei diplomati, 2019.
  • L. Bifulco, C Mozzanam, Introduzione: oltre l’employability. Approcci e prospettive per le transizioni giovanili scuola-lavoro, in Sociologia del Lavoro, 141, p. 7-22., 2016
  • E. Carminati, F.L. Monticelli, Y. Parpinchee, I giovani di ADAPT a colloquio con Giorgio Usai, in M. Tiraboschi (a cura di), Giorgio Usai. In ricordo di un sindacalista d’impresa, ADAPT University Press,  221-232., 2016
  • B. Caruso, Occupabilità, formazione e capability nei modelli giuridici di regolazione dei mercati del lavoro, in Giornale di diritto del lavoro e di relazioni industriali, 113, 1, pp. 2-134., 2007
  • L.V. Casano, Trasformazioni del lavoro e politiche per l’inserimento occupazionale dei giovani, in Economia e Società Regionale. Oltre il ponte, p. 119-137., 2018
  • P. Levi, La chiave a stella, Giulio Einaudi editore, Torino, 1978

 

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