Il futuro dell’apprendistato, tra opportunismo (economico) e un necessario cambio di paradigma (culturale)

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Bollettino ADAPT 18 marzo 2019, n. 11

 

L’ultimo numero della rivista inglese “International Journal of Training and Development” è interamente dedicato all’apprendistato. Gli articoli che lo compongono sottintendono una domanda comune: a fronte dei mutamenti tecnologici, economici e sociali, l’apprendistato è ancora uno strumento efficace a promuovere l’occupabilità dei giovani e favorire il reclutamento di lavoratori qualificati da parte delle aziende?[1]

 

L’editoriale della rivista[2] si apre costatando come l’apprendistato sia universalmente riconosciuto come uno strumento utile ed efficace per raggiunger gli obbiettivi sopra richiamati: “It is hard nowadays to find anyone who believes that apprenticeships – much like motherhood and apple pie – are anything other than a good thing.” La stessa Unione Europea, così come l’ILO (International Labour Organization) e l’OECD (Organization for Economic Co-operation and Development), promuovono l’apprendistato e ne identificano criteri di qualità che, se rispettati, permettono di realizzare percorsi d’apprendimento in grado di portare i giovani ad intraprendere carriere di qualità e ben retribuite, e alle aziende di risolvere molti dei problemi legati al cosiddetto skills gap, cioè alla difficoltà di reperire personale con le competenze effettivamente richieste dal mercato del lavoro.  Da questa prima constatazione nasce spontaneamente una domanda: se tutti i soggetti sopra richiamati riconoscono nell’apprendistato uno strumento utile e di qualità, perché in realtà è ancora così poco diffuso? Perché spesso è ridotto a un contratto scarsamente formativo e determinato unicamente dal desiderio di abbattere il costo del lavoro grazie ai benefici connessi all’apprendistato?

 

Gli autori dell’editoriale identificano un primo problema nella scarsa conoscenza dei benefici ad esso connessi, sia in termini formativi che di produttività per le imprese stesse, da parte di datori di lavoro. È quindi necessario promuovere azioni che mirino ad a diffondere una conoscenza più approfondita dell’apprendistato, capaci di analizzare tutti i costi e tutti i benefici ad esso connessi, i quali vanno oltre il ritorno economico a breve termine. Non solo. Come avviene ad esempio negli Stati Uniti (come riportato in A. Battaglia, M. Colombo, Trump sceglie l’apprendistato per promuovere occupazione e produttività. E l’Italia?, Bollettino ADAPT 19 novembre 2018), è importante riconoscere nell’apprendistato uno strumento in grado, grazie alla sua capacità di costruire sistemi locali d’incontro tra domanda e offerta di lavoro, di promuovere la produttività delle imprese e la loro competitività nei mercati internazionali, grazie alla possibilità di disporre di collaboratori qualificati. Un secondo problema è connesso all’oggettiva complessità della normativa dell’apprendistato, di certo non mitigata dal susseguirsi di riforme, come ad esempio accaduto in Italia. Inoltre, introdurre nuove norme e nuove regolamentazioni non è di per sé sufficiente a garantire la diffusione di apprendistati di qualità, anzi. A questo proposito gli autori citano l’esperienza del Regno Unito, nel quale il numero di apprendisti è calato del 26% a seguito della riforma del 2017, ricordando che: “simply instituting standards and procedures is not necessarily sufficient to ensure quality, as we have learnt in the UK”.

 

Nella conclusione dell’editoriale l’apprendistato è definito come una “piattaforma” attraverso la quale attrarre e formare giovani talenti. Una piattaforma che, necessariamente, dev’essere attivamente partecipata da diversi soggetti affinché sia efficace. L’idea di fondo (solo accennata nell’editoriale) pare quella di concepire l’apprendistato come un sistema le cui “parti”  che lo compongono sono i giovani (che però spesso preferiscono altri percorsi d’istruzione / formazione, e che hanno bisogno di conoscere meglio l’apprendistato e ciò che offre in termini di formazione / occupabilità), le imprese (chiamata ad abbandonare una logica costi-benefici a corto raggio e, se piccole, aprirsi alla collaborazione con altre imprese per formare gli apprendisti, se invece medio-grandi svolgere ruoli di coordinamento), le istituzioni pubbliche (le quali devono creare un ecosistema che aiuti, direttamente e indirettamente, l’apprendistato: ad esempio finanziamenti, ma anche regole chiare su come realizzare questi percorsi), il sistema di relazioni industriali (chiamato ad intervenire in materia a partire dalla conoscenza diretta delle professionalità all’opera nei diversi settori, oltre che promuovendo l’istituto). Appare inevitabile constatare come il futuro dell’apprendistato passi da questa logica di sistema, oggi ancora poco diffusa e ostacolata da una cultura poco incline al dialogo tra scuola, imprese e territori.

 

Un articolo utile ad approfondire questi temi è quello di Erica Smith, specificatamente dedicato al rapporto tra apprendistato e futuro del lavoro[3]. Il contributo pone in primo piano cinque tendenze oggi presenti nel mondo del lavoro: Industry 4.0., la globalizzazione, l’economia dei servizi, la mobilità dei lavoratori, la gig economy. Davanti a questi cambiamenti, l’apprendistato è ancora uno strumento utile ed efficace?

 

Prima di tutto, che cos’è l’apprendistato? Com’è noto, non esiste una definizione unica ed univoca a livello internazionale. Ci sono stati diversi tentativi di stabilire un “set minimo” di caratteristiche per identificare l’apprendistato, ad esempio da parte dell’ILO e della stessa Commissione Europea. In entrambe le definizioni, non rientra l’apprendistato professionalizzante italiano (ex. art. 44 d.lgs. n. 81/2015), cioè il 97% degli apprendistati in Italia, in quanto per parlare di “apprendistato” è richiesta la presenza di un’istituzione formativa attivamente coinvolta nella definizione e gestione del percorso, e una certificazione valida a livello nazionale in esito al percorso: elementi assenti nell’apprendistato di secondo livello. Il Cedefop (European Centre for the Development of Vocational Training) ha realizzato uno strumento online finalizzato alla comparazione dei diversi “apprendistati” europei, dall’utilizzo del quale si evince che in molti paesi non è presente nemmeno una definizione condiviso di apprendistato.

 

A fronte di questa forte eterogeneità, l’ILO ha scelto di indicare dei criteri di qualità dell’apprendistato, aventi una funzione d’indirizzo e “ideale”, piuttosto che fissare dei rigidi paletti legati ad una rigida definizione. A questi criteri corrispondono poi delle azioni i cui destinatari sono primariamente i decisori politici: Establish national goals to expand and improve apprenticeships; Raise quality of apprenticeships; Provide apprenticeships across the economy; Foster employer engagement; Safeguard worker rights and health ; Raise awareness of apprenticeships; Improve access for disadvantaged people; Strengthen partnerships between employers and training providers; Upgrade and facilitate inclusion of informal apprenticeships into the formal economy; Expand apprenticeships globally”. Il Governo italiano ha risposto positivamente alle richieste dell’ILO, dichiarando di impegnarsi in tutte queste azioni, anche se a conti fatti, almeno per ora, i risultati sperati non sembrano essere arrivati.

 

Le conclusioni dell’articolo sono che, ad oggi, i diversi sistemi nazionali d’apprendistato non sono “pronti” a rispondere a tutte le sfide sopra citate. Per quanto riguarda Industry 4.0. e lo spostamento dalla manifattura ai servizi, la possibilità di creare “alti apprendistati” è utile ed efficace per affrontare le novità in termini di competenze richieste: nessuna risposta invece per quanto riguarda la c.d. gig economy. Quest’ultima infatti, secondo l’autrice, dà luogo a rapporti di lavoro troppo “flessibili” rispetto all’inevitabile (almeno per ora) rigida regolamentazione dell’apprendistato, che necessita della partecipazione di diversi attori, partecipazione che può rallentare i processi di modernizzazione del sistema. Globalizzazione e mobilità dei lavoratori sono invece sfide almeno parzialmente affrontabili dall’apprendistato, nel senso che attraverso di esso è possibile formare lavoratori stranieri e immigrati e proporre percorsi d’ingresso nei mercati del lavoro nazionali di qualità – anche in questo caso, ci possono essere dei problemi per quanto riguarda l’utilizzo, da parte di multinazionali, dei modelli della nazione di provenienza (Si veda ad esempio A. Battaglia, Il Sistema Duale in Messico, Bollettino ADAPT 22 ottobre 2018). In sintesi, rispetto alle sfide poste dal “futuro del lavoro”, l’apprendistato sembra essere uno strumento troppo rigido e, complice anche la governance altamente partecipata, lento nel rispondere a mutamenti e cambiamenti. Se decliniamo poi queste sfide nel contesto italiano, l’assenza di una vera integrazione tra sistemi formativi e mondo del lavoro rende ancora più difficile credere nella capacità dell’apprendistato di rispondere alle esigenze per cui è pensato. Una sfida come quella posta da Industry 4.0. e dal mutamento tecnologico, può essere vinta solo creando collaborazioni e sistemi di relazioni tra università, ITS, centri di ricerca e imprese, per le quali l’apprendistato di terzo livello rappresenta lo strumento ideale per la formazione delle competenze richieste dal mercato, grazie alla sua capacità di far dialogare teoria e pratica in contesti reali.

 

Rimane però non affrontato, all’interno dell’articolo, un punto centrale: la collaborazione locale è insufficiente se manca un altrettanto forte coordinamento territoriale. Senza cioè realtà capaci di fare e soprattutto creare reti, non affidandosi esclusivamente alla “buona iniziativa” di privati e parti sociali, il rischio è infatti che l’apprendistato sia davvero troppo rigido e “disincarnato” rispetto alle sfide poste dalla contemporaneità. L’esempio lampante è quello dell’apprendistato di terzo livello in Italia, come strumento per la formazione di professionalità innovative e legate a Industry 4.0: mediamente, negli ultimi anni, ne sono stati attivati 617 all’anno, contro i 230mila professionalizzanti[4]. Le esperienze di apprendistato di alta formazione e ricerca sono infatti state determinate dalla libera iniziativa dei soggetti coinvolti, convinti dell’efficacia dell’istituto. L’effetto generato è stato quello di una vera e propria diffusione a macchia di leopardo: in alcune zone, grazie al dinamismo di centri di ricerca, università e imprese, è stato possibile creare ottimi percorsi d’apprendistato, capaci di intercettare i fabbisogni di tante imprese. Ma senza una vera operazione di coordinamento, il rischio è che si limiti la promozione dell’istituto alla bontà delle intenzioni dei soggetti coinvolti: manca infatti una cultura “di sistema”, capace di andare oltre logiche autoreferenziali e a corto raggio, necessaria per riscoprire l’apprendistato come un efficace strumento per la formazione integrale e l’occupabilità dei giovani.

 

Matteo Colombo

Scuola di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro

Università degli Studi di Bergamo

@colombo_mat

 

[1] Il presente contributo prosegue il ragionamento avviato in M. Colombo, Opinioni dottrinali sull’apprendistato tra riforme di legge, cambiamenti economici e quelle svolte culturali che ancora mancano, in Bollettino ADAPT 5 marzo 2019

[2] B. Newton, A. Hirst, L. Miller, Editorial: How do we solve a problem like apprenticeships?, in International Journal of Training and Development, 1/2019, pp. 1-6

[3] E. Smith, Apprenticeships and ‘future work’: are we ready? in International Journal of Training and Development, 1/2019, pp. 66-88

[4] Dati tratti dal report MLPS, ISTAT, INPS, INAIL, ANPAL, Il mercato del lavoro 2018. Verso una lettura integrata, 2019

 

Il futuro dell’apprendistato, tra opportunismo (economico) e un necessario cambio di paradigma (culturale)
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