Trump sceglie l’apprendistato per promuovere occupazione e produttività. E l’Italia?

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Con una recente dichiarazione, il Presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha proclamato la “Apprenticeship week”, dal 12 al 18 novembre di quest’anno. La dichiarazione è stata l’occasione per il Presidente di ricordare l’impegno della sua amministrazione nella promozione dell’apprendistato negli Stati Uniti, dove è storicamente poco apprezzato e diffuso. Solo nel 2018, sono stati stanziati quasi 300 milioni di dollari per l’implementazione di percorsi d’apprendistato in settori produttivi tradizionalmente estranei a questa tipologia contrattuale, anche grazie alla creazione di un Task Force dedicata, il cui scopo è stato quello di analizzare i benefici dell’apprendistato e soprattutto comunicarli a datori di lavoro e giovani. (cfr. A. Battaglia, L’apprendistato negli Stati Uniti, Bollettino ADAPT 28 maggio 2018).

 

È particolarmente interessante notare come, secondo il Presidente americano, l’apprendistato è un efficace strumento per la promozione dell’occupazione giovanile, in particolare grazie alla sua capacità di colmare il gap esistente tra le competenze possedute dai giovani in uscita dai percorsi d’istruzione e formazione, e i fabbisogni espressi dalle imprese. L’apprendistato assume così il ruolo di “ponte” verso la piena occupabilità, anche in settori ad alto contenuto tecnologico ed innovativi. Inoltre, l’apprendistato è indicato come uno strumento fondamentale per migliorare la produttività del Paese e la sua competitività su scala globale. Inseguire questi risultati è possibile solo esaltando la capacità dinamica e formativa dell’istituto, capace di far dialogare sistemi scolastici e mondo delle imprese, attraverso un metodo che integra istruzione e lavoro. L’amministrazione punta quindi sull’apprendistato come principale strumento per l’ingresso dei giovani nel mercato del lavoro.

 

Pochi sono i punti di contatto con la situazione italiana. Nonostante i numeri ancora modesti, l’obiettivo americano è chiaro: valorizzare l’apprendistato e il suo ruolo come strumento per la crescita economica. In Italia invece, se andiamo ad analizzare le modalità con cui i giovani entrano nel mondo del lavoro, assistiamo a uno scenario completamente diverso. Considerando solamente i tirocini extracurriculari, quelli cioè svolti al di fuori di un percorso d’istruzione e finalizzati per lo più all’inserimento lavorativo, nel 2017 assistiamo a una loro crescita del 15,4% rispetto all’anno precedente, con circa 368 mila tirocini extracurriculari attivati([1]). Nello stesso periodo, i contratti d’apprendistato erano poco più di 250.000([2]). Sebbene i primi dati riguardanti il 2018 mostrino una crescita dell’istituto, rimane confermato che in Italia esso è molto meno diffuso rispetto al tirocinio extracurriculare. L’apprendistato, inoltre, è presente solo nella sua versione professionalizzante, sganciata da percorsi d’istruzione e dal contenuto formativo più modesto. Da una prima lettura di questi dati, emerge come, ad oggi, il principale canale con il quale i giovani entrano nel mondo del lavoro è il tirocinio, e non l’apprendistato. Questo, di per sé, non è automaticamente un male: lo diventa quando si rivela palese il ricorso all’istituto per mascherare del vero e proprio lavoro dipendente che di formativo ha ben poco.

 

La scelta di campo è evidente: gli Stati Uniti puntano sull’apprendistato, per costruire un ponte in grado di dare ai giovani competenze spendibili nel mercato del lavoro e in grado di permettergli carriere di qualità; in Italia tutto tace e, nel silenzio, proliferano tirocini il cui valore formativo non è sempre evidente, scelti più per un abbattimento dei costi del lavoro che per la realizzazione del “ponte” sopra richiamato. Basti pensare che, in un recente articolo pubblicato sul Corriere della Sera([3]), si presentano le offerte di lavoro raccolta al “Bocconi&Jobs”, momento realizzato dall’ufficio placement dell’Università: quasi 250, tutti stage per brillanti neolaureati. Ora, i casi sono due: o la formazione universitaria non impartisce le competenze richieste dal mercato del lavoro – e questo è un problema in primis del mondo accademico, spesso sordo ai fabbisogni professionali – oppure il tirocinio è ora equiparato ad un periodo di prova, il cui scopo è “conoscere” il giovane, più che formarlo. In entrambi i casi, siamo davanti ad una stortura: nel primo, non si capisce allora perché non ricorrere – in nessun caso – all’apprendistato, ma affidarsi esclusivamente ai tirocini extracurriculari, nel secondo siamo davanti ad una strategia di abbattimento del costo del lavoro che di certo non ha come obiettivo il bene dei giovani, né della loro formazione.

 

Oltre a subire la “concorrenza” dei tirocini come strumento privilegiato per l’ingresso nel mercato del lavoro, l’apprendistato è vittima anche di una forte resistenza culturale da parte delle imprese che vedono in questa tipologia contrattuale soltanto un risparmio sul costo del lavoro, invece che un’opportunità di crescita aziendale, grazie alla componente formativa che lo caratterizza. Solo prendendo atto del valore formativo dell’impresa, le aziende italiane riusciranno ad essere innovative, a creare valore non solo per se stesse, ma anche per il territorio in cui si inseriscono, raggiungendo così l’obiettivo di essere competitive sui mercati internazionali.

 

Soprattutto l’apprendistato “scolastico” e di alta formazione potrebbero essere realmente una leva per la produttività e la competitività delle imprese. L’integrazione tra teoria e pratica che queste due tipologie contrattuali consentono di mettere in atto concorre alla formazione di persone, che non solo diventeranno lavoratori competenti e altamente specializzati, ma che saranno anche cittadini attivi e consapevoli del contesto in cui sono inseriti, concorrendo così allo sviluppo del Paese, oltre che alla propria realizzazione personale.

 

Senza voler avanzare paragoni improbabili, gli Stati Uniti ci mostrano un modo di intendere – anche culturalmente – l’apprendistato come efficace strumento non solo per aumentare l’occupazione, ma per creare lavori di qualità e per la crescita economica di tutto il Paese. In Italia, invece, poco si investe e per nulla si parla di apprendistato, anzi sembra diffondersi una tendenza alla svalutazione degli strumenti che consentono l’integrazione tra la scuola e il lavoro. A partire dall’ alternanza scuola-lavoro nell’istruzione superiore – di cui ad oggi sembra che non resterà neanche il nome, mutando in “percorsi per l’orientamento e le competenze trasversali” – il nostro Paese sembra ancora lontano dalla valorizzazione della qualità dei percorsi con cui i giovani entrano nel mercato del lavoro.

 

Alessia Battaglia

Scuola di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro

Università degli Studi di Bergamo

@_alebattaglia

 

Matteo Colombo

Scuola di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro

Università degli Studi di Bergamo

@colombo_mat

 

[1] Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, Rapporto sulle comunicazioni obbligatorie 2018, p. 6

[2] Ibidem

[3] Irene Consigliere, Marketing, finanza e tecnologia. Oltre 800 chance per neolaureati, Corriere della Sera, 13 novembre 2018

 

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