Vizi e virtù della comunicazione di Sergio Marchionne

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Al netto di alcune dubbie scelte di stile che sui social hanno fatto registrare l’indignazione di una parte degli utenti, la marcata separazione tra sostenitori e critici di Sergio Marchionne seguita al repentino avvicendamento al vertice di FIAT-Chrysler prima, e alla morte dell’ex amministratore delegato poi, era ampiamente prevedibile. Il racconto pubblico della vicenda di FIAT seguito all’entrata in ruolo del manager italo-canadese ha scontato infatti la pesante influenza dell’alta conflittualità storica che aveva contraddistinto le relazioni sindacali della più grande azienda privata d’Italia. Conflittualità che dal secondo dopoguerra a più riprese ha contribuito a informare il dibattito italiano sul lavoro con una vis ideologica che ancora lo contraddistingue. Dinamica riemersa in modo particolarmente acuto durante la gestione Marchionne, contrassegnata da un’innovazione nell’assetto organizzativo e contrattuale tanto profonda da essere considerata, a torto, come una svolta per l’intero sistema delle relazioni industriali del Paese. Tanto che l’affermazione secondo cui “Marchionne ha tolto diritti ai lavoratori” viene accolta perlopiù come dato di fatto e oggetto di valutazione, senza che di tali diritti sia fatto elenco e senza che delle operazioni dell’era Marchionne sia sottolineata la piena liceità, al di là di talune pronunce della magistratura in tema di condotta antisindacale.

 

Di tutto ciò ha fatto le spese la visibilità di alcune questioni alle quali le scelte strategiche di Marchionne assegnavano una centralità in qualità di leve per la competitività industriale, in particolare l’esigibilità contrattuale e il coinvolgimento organizzativo dei lavoratori.

 

Non si può però avere completa rappresentazione di questa dinamica senza contemplare tra i suoi fattori anche alcuni evidenti vizi scontati dalla comunicazione pubblica e istituzionale di FIAT durante l’era Marchionne. Gli attriti comunicativi con il sindacato risalgono non alla vicenda del rilancio dello stabilimento di Pomigliano D’Arco (il caso mediaticamente più esposto della storia delle relazioni industriali italiane), ma ancora più addietro. La divisione con i sindacati era esplosa infatti già nel 2008, tre anni dopo l’insediamento di Marchionne e a seguire un’iniziale convergenza registrata sulla base degli interventi proposti dal nuovo amministratore al piano Morchio. Dopo il rinnovo del contratto nazionale dei metalmeccanici il 20 gennaio 2008 la Fiom attribuì a Marchionne una dichiarazione testuale secondo la quale “per quanto lo riguardava quello sarebbe stato l’ultimo contratto nazionale unitario” (N. Penelope, Rinaldini: Marchionne? Patetico, la rottura con Fiom risale a molto prima di Landini, in Il Diario del Lavoro, 4 febbraio 2013). Dichiarazione che si prestava alle argomentazioni di chi voleva dimostrare, due anni prima di Pomigliano, la volontà programmatica di dividere il sindacato. Dimenticando in realtà come in FIAT il sindacato fosse stato più volte diviso anche in passato: a parti rovesciate, anzi, in alcuni passaggi storici cruciali per l’azienda la Fim-Cisl si era imposta in fabbrica come l’interlocutore più duro e intransigente nei confronti della direzione.

 

A ciò seguirono i controversi corsi di formazione assimilati quasi immediatamente dagli operai più vicini alla Fiom a delle operazioni di manipolazione culturale, ossia il preludio a quella “de-fiommizzazione” denunciata apertamente più tardi. Una lettura delle intenzioni aziendali che seguiva la tradizionale accusa di esercitare una strategia della paura per indurre i lavoratori alla competizione interna. Era d’altronde stato lo stesso Marchionne a parlare di operazione “culturale” sulla base di quelle esperienze. Nel giugno 2009 l’a.d. scriveva infatti una lettera agli “uomini e alle donne della nuova Chrysler” in cui spiegava già come in FIAT si fosse creata “una cultura dove da ognuno ci si aspetta che guidi” (“a culture where everyone is expected to lead”).

 

Va inoltre ricordato che le vicissitudini di Pomigliano si inserivano nel quadro di una divisione riapertasi già sul piano confederale con la mancata firma da parte della Cgil dell’Accordo Quadro per la riforma degli assetti contrattuali del 22 gennaio del 2009, a cui seguì la mancata firma da parte di Fiom dell’intesa attuativa del 15 aprile 2009. Al centro del contendere quella che per Cgil e Fiom era una difesa della centralità del contratto nazionale. È da questa prospettiva che va letto il rinnovo separato del Ccnl metalmeccanici del 15 ottobre 2009, ossia l’atto di apertura della stagione degli accordi separati anche nel settore metalmeccanico, durata fino al 2016.

 

Certo la divisione non aveva riguardato direttamente FIAT, ma proprio durante la negoziazione per il rinnovo del 2009 l’azienda compì il passo falso di dichiarare che avrebbe dimezzato i premi di risultato rispetto all’anno precedente. Fatto che faceva parlare il segretario nazionale della Fiom Giorgio Cremaschi di “una FIAT dell’immagine, della propaganda, della santificazione del suo amministratore delegato”, contrapposta a quella FIAT reale che stava facendo pagare la crisi ai lavoratori. Conclusione che trovava un ulteriore pretesto nella dichiarazione di Marchionne al Corriere della Sera il 20 gennaio 2009 secondo la quale quello sarebbe stato “l’anno più duro di sempre”, nonostante i dividendi record.

 

Il conflitto che si consumò a Pomigliano nel 2009 era quindi già impostato, seppure la questione della centralità del contratto nazionale non fosse poi stata posta in cima alle lista delle motivazioni dello scontro da parte della Fiom. L’operazione commerciale e contrattuale comportò, di fatto, la esclusione dei metalmeccanici Cgil dalla rappresentanza sindacale aziendale, non avendo la Fiom sottoscritto alcuno dei contratti collettivi applicati alle new-co di Pomigliano e Mirafiori, secondo il requisito previsto dall’art. 19 dello Statuto, solo nel 2013 reinterpretato dalla Corte costituzionale in un’ottica inclusiva e orientata al dato di effettività della rappresentanza, ponendo fine a uno dei più imponenti contenziosi giudiziari in materia sindacale dell’ultimo decennio.

 

Diversi passaggi comunicativi dalla dubbia valutazione tattica si consumarono poi nel corso di tutta la vicenda che portò alla firma del contratto collettivo specifico di gruppo partendo dall’accordo di Pomigliano sottoposto a referendum. In primis un’ambiguità circa le reali intenzioni dell’azienda nel caso avesssero prevalessero i “no”. Questione storica ancora aperta e sulla quale ruotano tutt’ora le opposte interpretazione che parlano di “sfida” da un lato, e di “ricatto” dall’altro. Al netto delle intenzioni, è difficile però negare che numerose dichiarazioni di Marchionne favorissero la seconda interpretazione. Senza parlare di chiusura dell’impianto, il manager indicava pubblicamente: “Se l’accordo si trova […] partiamo con la produzione nel 2011. Se no, la andiamo a fare altrove”. Chiosando poi con la prefigurazione di un referendum, che in realtà sarebbe stato proposto dai sindacati qualche giorno dopo, ma che fu invece letto dalla stampa come proposta aziendale date proprio le parole del manager di FIAT: “andiamo a domandare agli operai di Pomigliano […] se vogliono lavorare o meno” (6 giugno 2010). Sono queste esternazioni il sintomo di un deterioramento del conflitto tra azienda e sindacato che poteva essere evitato, in quanto giocato esponendo sostanzialmente i lavoratori al rischio occupazionale. Era stato presto quindi abbandonato il profilo di responsabilità sociale scelto da Marchionne a dicembre del 2009 quando l’ad aveva voluto sottolineare come si stesse cercando di “trovare un giusto punto di equilibrio” tra queste e “logiche industriali”, “puro calcolo economico” che avrebbe portato “alla scomparsa dell’azienda”.

 

Controproducente per la credibilità della posizione aziendale fu anche la scelta di comunicare a mezzo stampa il piano Fabbrica Italia(del quale Pomigliano doveva costituire il primo atto) con un superlativo dal sapore americano,ossia come “il più straordinario piano industriale che il nostro Paese abbia mai avuto”. Salvo poi dover revocare la dicitura solo il 25 ottobre 2011 perché eccessivamente strumentalizzata dalla contesa politica, secondo l’azienda.

Per stessa ammissione dell’allora responsabile delle relazioni sindacali di FIAT Paolo Rebaudengo, anche la gestione della fase processuale nella quale FIAT venne trascinata dalla Fiom conobbe diverse mancanze. In primis “l’incapacità di presentare i fatti come [erano] realmente accaduti” (Nuove regole in fabbrica. Dal contratto FIAT alle nuove relazioni industriali, 2015, p.68), mentre Fiom si muoveva denunciando la violazione nientemeno che della Costituzione e col supporto addirittura di parte delle istituzioni dello Stato.

 

L’argomento dell’attacco alla legge e alla Costituzione portava Marchionne a dire di fronte a Governo e sindacati di “non voler più commentare assurdità del genere”, tradendo la partecipazione emotiva con la quale viveva la vertenza italiana. Nel tentativo di sottrarsi alla contesa politica Marchionne rinunciava però anche a porre pubblicamente e con maggiore enfasi la questione della esigibilità del contratto e quindi della certezza delle relazioni industriali aziendali, vera posta in gioco nella negoziazione di Pomigliano. Questione che tre anni dopo, una volta che il management si fosse convinto della necessità di una legge sulla rappresentanza, sarebbe comparsa sulle pagine dei giornali sottoforma di nuovo diverbio istituzionale. Nel caso specifico quello con il ministro del Lavoro Enrico Giovannini, impegnato a smentire l’amministratore delegato di FIAT sul fatto che fosse “impossibile fare impresa in Italia”. Marchionne confermava infatti quanto espresso nella lettera a Marcegaglia per cui “in Italia non è possibile produrre con gli stessi standard dei principali competitor a livello globale”.

 

Già però prima del referendum di Pomigliano alcuni passaggi del Marchionne pubblico contribuivano a presentare in senso negativo la questione della governabilità degli impianti, concepita in maniera eminentemente unilaterale, con l’adesione, piuttosto che con il coinvolgimento del sindacato, e ricercata nella convinzione malcelata che i lavoratori FIATdi tutta Italia fossero per esempio inclini ad inventare scioperi in concomitanza di eventi sportivi. Con il confronto, talvolta strisciante, con i livelli di produttività degli stabilimenti FIAT polacchi.

A tutto ciò va aggiunto che la figura di Sergio Marchionne non aveva mai conquistato le simpatie della maggioranza della stampa italiana. Come invece gli era riuscito oltreoceano, proprio grazie alla rottura di alcune convenzionalità delle relazioni pubbliche, come testimoniato da Brent Snavely, a lungo corrispondente e commentatore per la Detroit Free Press. Poco o nulla dell’ethos visibile, o reso visibile, di Marchionne contribuiva a dare risalto al rinnovamento culturale che il cambiamento perseguito in fabbrica implicava anche per il management aziendale. Poco o nulla, cioè, segnalava uno scarto sufficientemente evidente con la strategia della gestione romitiana di FIAT che aveva raggiunto l’obiettivo di “sconfiggere” il sindacato tout court.

 

Quanto è andato perso nella rappresentazione di Sergio Marchionne non si limita però solo al perimetro delle relazioni industriali, ma coinvolge un dominio che pare conoscere un recupero solo postumo, negli ultimi giorni, con la pubblicazione di numerosi stralci di suoi discorsi e di citazioni. Si tratta della figura del mentore, del testimone portatore di un pensiero frequentemente rivolto alle qualità della leadership, al valore e alla responsabilità delle scelte, nonché alle implicazioni etiche delle ambizioni personali. Quasi che a Sergio Marchionne sia stato riconosciuto a posteriori lo status di manager-intellettuale, d’altronde rappresentato dalla scelta di conseguire studi filosofici prima che economici e giuridici. Ciò seppur ci tenesse a sottolineare di non essere “un professore, né un economista e neppure lontanamente un politico”, ma “semplicemente un uomo di industria”. Quella responsabilità delle scelte più volte ribadita, per esempio durante l’intervento al Meeting di Rimini del 2010, assumeva una connotazione etica ulteriore nel discorso ai neolaureati dell’Università di Toledo nel 2011, che si inserisce perfettamente nel tentativo di lasciar commentare a Marchionne stesso la sua scomparsa: “Quello che una persona ha fatto nella sua vita non dovrebbe essere valutato in base a cosa ha raggiunto per sé stesso, ma piuttosto per quanto ha lasciato agli altri”. Concetto riproposto più di recente, nel 2016, agli studenti della Università Luiss con la metafora professionale del giardiniere, ossia di chi compie un’opera di cura e di trasformazione nella consapevolezza di essere tuttalpiù uno snodo necessario nello scorrere dei cambiamenti, di chi legge la responsabilità del suo tempo immaginando come la potatura, atto drammatico, ma lungimirante e comunque non definitivo, possa influire su un futuro in fondo imprevedibile.

 

D’altronde è questa l’eredità più generale che i risultati seguiti alle scelte perseguite in FCA, oggi riconosciuti anche da tutti i sindacati (almeno nei termini del salvataggio e della ristrutturazione dell’azienda) consegna alla classe dirigente dell’industria italiana. Un’educazione a uno sguardo oltre i pregiudizi e oltre i confini delle prassi. Il che significa al contempo affermare il ripensamento continuo delle soluzioni individuate per rispondere alla crescente complessità globale. Un metodo in continuo perfezionamento, prima che un contenuto.

 

Francesco Nespoli

ADAPT Research Fellow

@FranzNespoli

 

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