Università: “terza missione” o “ritorno alle origini”?

Viviamo in una realtà in continua evoluzione. L’introduzione di nuove tecnologie crea innovazione. L’innovazione crea cambiamento. Il cambiamento porta con sé una forte dose di adattamento. Nulla sembra sottrarsi a un simile turbinio.
 
Anche e forse soprattutto il mondo del lavoro è attraversato da una rivoluzione radicale, spesso, a dire il vero, non colta fino in fondo. Nel suo rapido mutar pelle questo provoca, in maniera quasi inevitabile, il mondo della formazione. Un lavoro in continua evoluzione, infatti, non può avere come controparte una modello formativo statico e arroccato su paradigmi novecenteschi.
 
Le sfide del presente entrano, con forza, dentro le aule universitarie e in modo particolare in quegli Atenei che, quasi per vocazione originaria, sono chiamati a confrontarsi costantemente con il mondo circostante, specialmente con le realtà produttive. Il futuro dell’Università o meglio la sua mission per il XXI secolo è stata così posta al centro dell’apertura dell’anno accademico del Politecnico di Torino.
 
Da un punto di vista storico il mondo universitario ha conosciuto due macro-modelli formativi di riferimento. Il primo incentrato sulla didattica. Il secondo – di derivazione humboldtiana – fondato sulla ricerca, che ha caratterizzato il XIX e XX secolo. E il XXI secolo? Quale paradigma di formazione universitaria richiede?
 
Da più parti e in maniera sempre più ricorrente si fa oggi riferimento all’idea della “terza missione” universitaria basata sul concetto di Entrepreneurial University. Che cosa questo significhi risulta essere determinante.
 
Tre sono le possibili declinazioni di tale espressione proposte durante l’apertura dell’anno accademico del Politecnico di Torino: formare imprenditori, creare imprese e imprendere.
 
Insegnare a uno studente a essere un imprenditore significa fornirgli gli strumenti necessari per sviluppare una forma mentis nuova: duttile, versatile e veloce. In grado di renderlo abile a saper cogliere le occasioni che si presentano e a “muoversi creativamente tra uno spazio delle possibilità e uno spazio delle soluzioni”. In altre parole, vuol dire insegnargli a individuare un problema, coglierlo come un’opportunità d’innovazione, trovare un insieme di soluzioni e tra di esse scegliere quella che crea maggior valore.
L’Università che crea impresa, invece, è la seconda declinazione possibile del concetto di “terza missione”. Essa sembra avere due possibili articolazioni. Incentivare i giovani a sviluppare spinoff che partono dalla ricerca accademica e la “portano a frutto” in una vera e propria azienda autonoma. Oppure, collegare in maniera più salda le imprese – in modo particolare le startup – che nascono da una buona idea ma che hanno poi bisogno della ricerca accademica per poter sviluppare i propri prodotti.
 
L’ultima interpretazione possibile del concetto di Entrepreneurial University è quella di Università che imprende. Si tratta di un concetto complesso e articolato perché “potrebbe apparire in antagonismo con due valori […] intoccabili: quello dell’università pubblica e quello della sacralità del sapere e che portano a vedere con sospetto ogni accostamento con l’idea di impresa”. L’equilibrio, in questo caso, è quanto mai complesso da trovare.
 
L’Università che imprende è l’Università capace di andare alla ricerca di fondi, non (solo) per la mancanza di quelli pubblici, ma perché si fa capace di rispondere alle esigenze del mondo esterno il quale non viene più visto come una “pericolosa distrazione” dallo studio, ma come un’occasione vera di ricerca. Nell’imprendere, l’Università, crea più del semplice valore economico. Crea innovazione e relazione. In questa prospettiva quasi paradossalmente l’Università si trova oggi a competere con dei nuovi concorrenti: le imprese stesse. Diversi dati, infatti, dimostrano che gli investimenti in ricerca e sviluppo da parte delle grosse aziende sono di gran lunga maggiori rispetto a quelli fatti a livello, non italiano, bensì comunitario.
 
Un esempio concreto della “terza missione” sembra offerto dall’esperienza del Massachusets Institute of Technology il quale ha formato imprenditori il cui PIL prodotto complessivamente è pari al 17° posto del PIL mondiale. Questo dato è già piuttosto interessante, ma, ciò che è veramente rilevante, è come le imprese sviluppate dagli ex-alunni siano interdisciplinari e spesso non coerenti con il percorso di studi effettuato. Il che significa che al MIT viene insegnato un modo di pensare, di affrontare i problemi, una vera e propria cultura: quella imprenditoriale.
 
La riflessione sulla “terza missione” dell’Università ha sicuramente il merito di riportare al centro della discussione un tema sovente trascurato: quello del futuro dell’Accademia in Italia. Nel nostro Paese, infatti, ogni discussione che riguarda il mondo universitario spesso non fa altro che replicare un copione già noto: o la sterile polemica pubblico Vs privato oppure l’ennesima denuncia per la (cronica) mancanza di fondi. Il vero nodo per i futuro dell’Università è invece un altro: come far sì che essa risponda alle esigenze espresse dal mondo che sempre più radicalmente sta cambiando?
 
Qui, però, più che immaginarsi una “terza missione” sembra più utile un ritorno alle origini. A quell’idea di Università non intesa come una torre d’avorio di erudizione enciclopedica avvolta da un’aurea di mistero quasi sacrale, bensì quale luogo di dialogo e confronto ben radicato nel mondo e nelle sue esigenze quotidiane. Una simile “torsione” richiede sicuramente un cambio di paradigma profondo che parte non dal guardare il mondo dal punto di vista di una cattedra, ma dal conoscerlo dal di dentro.
 
 
Da un punto di vista didattico significa “far sporcare” le mani o meglio le menti dei ragazzi il prima possibile. Più si cerca di lasciarli immacolati dalle vere esigenze della realtà più aumenta il rischio di una futura classe lavoratrice che ha bisogno di anni per passare dalla teoria studiata alla pratica. È invece nel paradigma dell’alternanza continua che abbatte le barriere tra Università e Mondo che è possibile dar vita a un nuovo ciclo di vita per l’Accademia italiana.
 
Andrea Noris
ADAPT Junior Fellow
@andnrs
 
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