Una proposta per il lavoro protetto

Il tema della qualificazione dei rapporti lavorativi occupa da tempo un posto centrale nel dibattito giuslavoristico. L’ampio contenzioso giurisdizionale, i numerosi problemi sociali ad esso sottostanti, drammaticamente acuiti in questo lungo periodo di crisi economica, ne fanno anzi “il” tema per eccellenza del diritto del lavoro.

 

Le ripetute riforme normative degli ultimi anni non sono riuscite ad incidere sulla materia, finalizzate come erano ad interventi settoriali e contraddittori sulle tipologie contrattuali, senza porsi il problema della sistematizzazione stabile delle categorie generali, presupposto per una maggiore certezza del diritto.

 

Sul piano tecnico, la dottrina ha già diffusamente evidenziato l’insufficienza definitoria dell’art. 2094 c.c., la sua inidoneità a delimitare chiaramente numerose figure lavorative concrete, comprese nell’area “grigia” tra autonomia e subordinazione e difficilmente riconducibili alle anguste categorie previste. Le criticità di tale norma, peraltro, non si limitano al profilo tecnico-giudico, ma si estendono al profilo sociale della mancata ricomprensione in essa delle figure della c.d. parasubordinazione, come noto bisognevoli di tutela in quanto costituite da prestatori che versano, per lo più, in condizioni di dipendenza economica. Dunque, per note ragioni sociali, la platea di lavoratori che necessitano di specifica protezione giuridica si è ampliata ben oltre i confini del lavoro subordinato. Si è anche, più radicalmente, sostenuto che è la stessa normazione per fattispecie generali a determinare incertezza, per la sua intrinseca inadeguatezza a circoscrivere in ambiti sufficientemente chiari le varie tipologie di attività lavorative. In questo contesto concettuale, è la stessa dicotomia tra autonomia e subordinazione a dover essere complessivamente ripensata.

 

Al fine di pervenire a proposte semplificatorie del quadro attualmente esistente, che consentano sia di rispondere alle istanze sociali delle parti coinvolte nei contratti di lavoro, sia di prevenire contenziosi, bisogna indagare i motivi che hanno determinato la nascita della dicotomia autonomia/subordinazione. Orbene, questa è certamente il corollario della visione tradizionale del diritto del lavoro quale statuto protettivo del lavoratore subordinato, identificato quale soggetto “debole” del mercato del lavoro. La creazione della figura del lavoratore subordinato si connette, dunque, alla necessità di tutela di tale soggetto e di riequilibrio delle posizioni delle parti del contratto di lavoro.

 

Secondo la relazione annessa al disegno di legge n. 1006, redatto dal Prof. Ichino, “Poiché il bisogno di protezione nel mercato del lavoro nasce essenzialmente non dalla subordinazione (che è fatto essenzialmente tecnico-giuridico) ma dallo squilibrio di potere contrattuale tipico della situazione di dipendenza economica del prestatore dall’impresa, quest’ultima è la situazione che viene assunta nel disegno di legge come fattispecie generale di riferimento del sistema giuslavoristico”.

 

L’assunto coglie esattamente, nella dipendenza economica, la ratio del bisogno di protezione; nondimeno, in adesione ad una comune elaborazione, la subordinazione viene ridotta ad un “fatto tecnico-giuridico”. Non sembra superfluo rammentare come quest’ultima nozione dovrebbe essere la “traduzione” giuridica del fatto sociale – dipendenza economica -, secondo l’antico brocardo ex facto oritur ius. In altri termini, non sembra che sia stato adeguatamente dimostrato che il bisogno di protezione avvertito dal legislatore fosse indirizzato esclusivamente verso soggetti “eterodiretti” – secondo la concezione diffusa di “subordinazione giuridica” -, e non, piuttosto, verso la generalità dei soggetti economicamente deboli. Anche per aver creato tale equivoco ermeneutico, bisogna riconoscere che la detta “traduzione” giuridica del fenomeno sociale, di cui all’art. 2094 cit., non è stata efficace; ne discende la necessità di una nuova versione della norma, che tenti di superare i dilemmi qualificatori sorti.

 

Pertanto, si è tornati al punto di partenza del diritto del lavoro, laddove si registra l’inderogabile necessità di fornire tutele a soggetti, non più riducibili ai lavoratori subordinati – in senso giuridico -, economicamente “deboli” del mercato del lavoro. La premessa, naturalmente, è l’identificazione di una nuova categoria di soggetti da tutelare.

 

Una prima strada, radicale, potrebbe essere quella dell’abolizione esplicita delle figure intermedie della parasubordinazione e di far rientrare, dunque tutte queste nell’area della subordinazione tout court. Tale soluzione presenta, tuttavia, il pericolo concreto di creare ulteriori incentivi verso il ricorso al falso lavoro autonomo e, ancora peggio, verso il sommerso. Inoltre, essa non asseconderebbe scelte, pur riscontrabili nella pratica, di autonomia nell’esecuzione dell’attività da parte degli stessi prestatori. Infine, rimarrebbe intatto il problema definitorio scaturente dall’attuale art. 2094 c.c.. Abbandonate dunque opzioni ideologiche, per lo più deleterie in tema di rapporti lavorativi, è necessario cercare soluzioni “pragmatiche” ed il più possibile equilibrate, che tentino di evitare paradossali risultati pratici nella “casa di cristallo” della disciplina dei rapporti lavorativi.

 

Nella classica ottica protettiva, tuttora da ritenere il fondamento della materia, si potrebbe pensare, in luogo della classica contrapposizione tra autonomia e subordinazione, ad una partizione tra lavoro protetto e lavoro non protetto. Quest’ultimo sarebbe da individuare nei lavoratori autonomi “puri” ex art. 2222 c.c., nei liberi professionisti di cui agli artt. 2229 c.c., nonché nei titolari dei rapporti di cui all’art. 409, comma 1, n. 3) c.p.c. i quali, sulla base delle condizioni economiche, della libertà di autoorganizzazione, della pluralità di committenti, non versino in condizioni di dipendenza economica o organizzativa da uno o più soggetti. L’altro genus coinciderebbe con tutte le altre categorie di lavoratori oggi previste dalla legge.

 

In tal modo, si semplificherebbe il compito qualificatorio-interpretativo, poiché esso sarebbe limitato al lavoro senza tutele, con conseguente spazio residuale all’altro. In tale contesto normativo sarebbe pertinente una presunzione normativa generale, seppure relativa, di lavoro protetto, come raccomandato dall’OIL (Racc. n. 198/2006) e dal Comitato economico e sociale dell’Unione europea (Parere n. 2013/C 161/03).

 

A questo punto resterebbe la questione dell’attribuzione delle tutele: l’assimilazione delle varie figure di lavoro protetto dovrebbe essere strutturata con una rivisitazione dello statuto protettivo oggi previsto per il lavoro subordinato. Peraltro, le tutele previdenziali, in ragione della situazione critica creatasi con le recenti riforme pensionistiche, dovrebbero essere per tutti quelle dell’attuale lavoro subordinato. In questo quadro, si può ragionare in merito alle proposte di Statuto dei lavori, relativamente al nucleo universale ed inderogabile di diritti, per poi prevedere le tutele “variabili” ipotizzate ed adattabili ai diversi contesti con gli interventi migliorativi dell’autonomia collettiva ed individuale.

 

In definitiva, l’effetto principale della modifica proposta sarebbe l’assimilazione, sul piano delle tutele, della parasubordinazione alla subordinazione e la loro confluenza nella nuova categoria del lavoro protetto. Per il resto, la disciplina dei vari rapporti rimarrebbe immutata, con la vigenza di tutte le norme compatibili con il nuovo quadro. Sul piano qualificatorio muterebbe radicalmente il metodo, evolvendo da quello, formale, per fattispecie generali a quello, sostanziale, del soggetto destinatario delle tutele; ciò attraverso la notevole semplificazione della generalità e residualità della categoria del lavoratore protetto, rispetto al lavoro non protetto, il solo identificabile “per fattispecie”.

 

Ovviamente, l’abuso del lavoro autonomo non protetto dovrebbe essere sottoposto ad un trattamento sanzionatorio adeguato, e la relativa opera di repressione intensificata. La soluzione proposta recherebbe anche il vantaggio di agevolare l’azione repressiva degli abusi, giacché sarebbe onere del presunto committente dimostrare che l’attività del preteso collaboratore autonomo rientri nell’alveo dell’autonomia, la sola area definita per legge.

 

Circa il trattamento sanzionatorio per l’abuso del lavoro autonomo – o non protetto -, si può pensare alla seguente formulazione: “Chi occupa un lavoratore protetto utilizzando illecitamente un contratto di lavoro di natura autonoma è punito con la sanzione amministrativa da €750 a 6.000 per ciascun lavoratore e con la sanzione di €75 ciascuna giornata di lavoro effettivo. Alla violazione si applica la procedura della diffida di cui all’art. 13 del d.lgs. n. 124/2004.

La sanzione prevista nel presente articolo esclude l’applicazione delle sanzioni amministrative previste per l’inosservanza degli obblighi relativi all’assunzione ed allo svolgimento del rapporto di lavoro nelle ipotesi di inesatta osservanza degli obblighi medesimi.”

 

L’esclusione di altre sanzioni risponde al principio di legalità di cui all’art. 1 della legge n. 689/1981; invero, la legge non contempla il trattamento sanzionatorio previsto per l’inadempimento degli obblighi “formali” di gestione del rapporto (comunicazione e dichiarazione di assunzione, LUL, prospetti paga, ecc.) nelle ipotesi di abuso delle forme contrattuali del lavoro autonomo. Rectius: non lo contempla ove gli adempimenti siano comunque posti in essere, sia pure in modo inesatto a causa della scorretta qualificazione del rapporto. Secondo la formulazione proposta, le sanzioni sarebbero applicate unicamente nei casi di omesso adempimento, ciò che appare maggiormente conforme alla lettera delle norme sanzionatorie in argomento.

 

In proposito, appare opportuno segnalare che in dottrina si discute circa la possibilità di una riforma complessiva del sistema sanzionatorio del lavoro. Le alternative allo studio sono due: la prima propone un Testo Unico procedimentale che introduca una disciplina speciale del procedimento amministrativo sanzionatorio del lavoro, in deroga alla legge n. 689/1981; la seconda, certamente più complessa, preconizza un T.U. procedimentale e sostanziale, che includa, oltre alle disposizioni procedurali, anche tutte le sanzioni vigenti in materia.

 

Carmine Santoro

Scuola internazionale di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro

ADAPT-CQIA, Università degli Studi di Bergamo

@carminesantoro

 

Scarica il pdf pdf_icon

 

Una proposta per il lavoro protetto