Un Lama renziano del 1978 e l'arretratezza sindacale di Camusso

Il knock out definitivo al “camussismo” lo assesta Luciano Lama. E’ un colpo mortale che non lascia scampo. La prova regina naviga su Twitter grazie al cinguettio impertinente di Fabrizio Rondolino. Perché Susanna Camusso è fuori dal tempo? Te lo spiega un’icona del sindacalismo pragmatico e responsabile, il leader della Cgil più amato e rispettato (insieme a Giuseppe Di Vittorio).
 
Nell’intervista pubblicata il 24 gennaio 1978 su Repubblica, Lama annuncia a Eugenio Scalfari i capisaldi del “programma di solidarietà nazionale” con cui la Federazione sindacale unitaria decide di impegnarsi per “raddrizzare la barca Italia”. Innanzitutto un sindacato che badi alla concretezza delle cose e non si accontenti di far rumore deve saper perseguire i propri fini: “Se vogliamo esser coerenti con l’obiettivo di far diminuire la disoccupazione, è chiaro che il miglioramento delle condizioni degli operai occupati deve passare in seconda linea”. Per Lama il problema numero uno, “angoscioso e tragico”, è dato da un milione e 600 mila disoccupati.
 
Per far fronte in modo efficace, e non solo propagandistico, il sindacato deve accettare un piano di sacrifici. Seguendo il filo del ragionamento, oggigiorno Camusso sarebbe “coerente” se dichiarasse che la Cgil cura gli interessi dei propri iscritti, in primis pensionati e ultragarantiti. Chi un lavoro non ce l’ha, non rientra in alcuna delle predette categorie. Sempre meglio un bagno di coerenza che non l’agitazione permanente, il soffiare sul fuoco del disagio sociale a suon di ultimatum e rutti di piazza.
 
Ma Camusso sogna l’autunno caldo del ’69 e tuona contro “la libertà di licenziare”. “Noi obietta serafico Lama non possiamo più obbligare le aziende a trattenere alle loro dipendenze un numero di lavoratori che esorbita le loro possibilità produttive, né possiamo continuare a pretendere che la Cassa integrazione assista in via permanente i lavoratori eccedenti. Nel nostro documento si stabilisce che la Cassa assista i lavoratori per un anno e non oltre […]. Insomma: mobilità effettiva della manodopera e fine del sistema del lavoro assistito in permanenza”. Che bestemmia: cassa integrazione per un solo anno. “Noi non vogliamo trasformare il lavoro produttivo in assistenza. Capita spesso che i lavoratori in cassa integrazione trovino un altro lavoro, un lavoro nero, e contemporaneamente beneficino del salario corrisposto dalla Cassa. Questi fenomeni, specie al nord, sono abbastanza diffusi. E debbono assolutamente cessare”. E sull’accorciamento dell’orario di lavoro? “Siamo il paese dove l’orario di lavoro effettivo è uno dei più bassi tra i paesi industriali evoluti. Lavoriamo mediamente 40 ore settimanali e abbiamo un numero di festività più alto che altrove. Ripeto: il problema si risolve soltanto con una ripresa dello sviluppo”.
 
A Scalfari che gli domanda se si possa parlare di una svolta di fondo nell’atteggiamento del sindacato, Lama conferma: “E’ una svolta di fondo. Dal ’69 in poi il sindacato ha puntato le sue carte sulla rigidità della forza lavoro”. Altro che scimmiottamenti massimalisti. “Noi siamo convinti prosegue Lama che imporre alle aziende quote di manodopera eccedenti sia una politica suicida. L’economia italiana sta piegandosi sulle ginocchia anche a causa di questa politica. Perciò, sebbene nessuno quanto noi si renda conto della difficoltà del problema, riteniamo che le aziende, quando sia accertato il loro stato di crisi, abbiano il diritto di licenziare”. Il sistema economico non sopporta “variabili indipendenti”: non lo è il profitto e non può esserlo neanche il salario. A sentire Lama, “in questi anni i lavoratori e il loro sindacato hanno sostenuto che il salario è una variabile indipendente […].
 
Ebbene, dobbiamo essere intellettualmente onesti: è stata una sciocchezza, perché in un’economia aperta le variabili sono tutte dipendenti una dall’altra”. Andatelo a spiegare a Landini che l’Italia è un puntino in un mondo globalizzato. Andatelo a spiegare alla chioma guerrigliera che non si piega a una borghese messinpiega. Il mondo è cambiato, corre veloce e tornare indietro è impossibile.
 
Nelle pieghe delle riflessioni di Lama che annuncia l’imminente “svolta dell’Eur” si avverte l’arrovellamento interiore di un uomo che non si ritiene depositario di verità rivelate, rifugge i fumi dell’ideologia e ricerca soluzioni riformatrici. E’ siderale la distanza dalla Cgil a traino Camusso, tutta avviluppata in una lotta di potere in cui gli interessi dei lavoratori non c’entrano un bel niente. Camusso, da una parte, lotta con il governo (caro Renzi, la concertazione non si rottama); dall’altra, si azzuffa con Landini (pas d’ennemis à gauche).
 
In questo schema di gioco che importa quanti lavoratori si asterranno effettivamente dal lavoro il 12 dicembre? Quel che conta sono i cortei che si snoderanno lungo le vie, le piazze che urleranno, le interviste da masanielli operaisti, i ringhi anti governativi. E’ questa la degenerazione di un sindacato iperpoliticizzato che anziché servirsi della politica in vista dei propri obiettivi mira a sostituirsi alla politica. E si moralizza rispolverando antichi adagi (onesti vs. disonesti) o discettando attorno alle “contraddizioni del renzismo” (copyright Camusso). Con una confusione di ruoli che Lama, di nuovo, smaschera inesorabile: le soluzioni politiche non ci sono affatto “indifferenti”, ma esistono “obiettivi ancora più importanti che superano la fedeltà di partito. L’obiettivo di dar lavoro ai giovani è d’immensa portata. Una società che lascia i giovani senza sbocco è condannata”. E’ il 1978, Lama si congeda e l’intervista si chiude. Ah, la parola “padroni” non ha fatto capolino neppure una volta.
 
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Un Lama renziano del 1978 e l'arretratezza sindacale di Camusso
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