Un apprendistato senza garanzia

L’apprendistato come canale privilegiato di accesso al mercato del lavoro per i giovani. Un obiettivo formalmente e frequentemente condiviso da chiunque detenga un ruolo di responsabilità nel mondo dell’occupazione. Un obiettivo tuttavia ancora lontano come testimoniano le ultime rilevazioni ISFOL e INPS sul numero di contratti di apprendistato attivati ogni anno: -22635 nel 2012 rispetto all’anno precedente.
 
Chiunque avesse infatti riposto fiducia nell’attuazione del piano Garanzia Giovani come ultima occasione per vedere aumentare gli incontri tra i giovani in cerca di lavoro e l’apprendistato sarà inevitabilmente costretto a ricredersi.
 
Tra i nove strumenti presenti nel “menù” a disposizione delle Regioni per l’implementazione del programma, l’apprendistato si è infatti aggiudicato l’ultimo posto nella classifica delle ripartizione delle risorse finanziarie (il 4% del totale di 1,4 miliardi, come sottolineato da Francesca Barbieri su Il Sole 24 Ore).
 
La motivazione addotta è alquanto contradditoria: tolto l’apprendistato professionalizzante (escluso direttamente al tavolo con il Ministero) gli apprendisti in primo e in terzo livello in Italia sono uno sparuto gruppo. Tanto vale lasciar perdere.
 
Sono i tirocini invece a vedersi assegnate la maggior parte delle risorse. Si aggiunga pure la fresca notizia della firma presso il Mibac del decreto col quale sono stati stanziati fondi per 150 tirocini pagati 1000 euro al mese in importanti siti italiani e si otterrà un sufficiente catalogo di segnali che suonano come una programmatica rinuncia della politica, a tutti i livelli, a promuovere lo scambio di qualità tra formazione e lavoro per un’occupazione di qualità. Puntare sui tirocini non significa altro che fotografare lo status quo del mercato del lavoro, trascurando l’incidenza della qualità della formazione e riconciliandosi con i malumori dell’opinione pubblica intervenendo sul versante economico (con criteri alquanto evanescenti).
 
Alla luce delle esperienze estere, molto più lungimirante sarebbe invece puntare su quelle tipologie di contratto con le quali il diritto del lavoro assicura un legame tra investimenti in capitale umano da parte delle imprese e l’occupazione.
 
La ragione del mancato decollo dell’apprendistato non si trova dunque nella densità degli adempimenti burocratici richiesti, né la maggiore onerosità è una spiegazione oggi di per sé sufficiente. Le cause fondamentali sono piuttosto culturali.
 
Che l’apprendistato per la qualifica e il diploma e quelli di alta formazione e di ricerca siano sostanzialmente sconosciuti ai ragazzi come alle imprese, nonché misconosciuti dalla maggior parte dei contratti collettivi, era infatti più che noto. E tuttavia proprio quella della Garanzia Giovani avrebbe potuto essere un’importante opportunità per dare un primo vero impulso alla promozione dell’apprendistato a tutti i livelli, sfruttando la razionalizzazione prevista dei servizi per l’impiego per ottenere una maggiore capillarità nella comunicazione dei vantaggi di questa forma di contratto.
 
La comunicazione dell’apprendistato in Italia si è composta invece finora di episodi isolati:
 

  • uno spot voluto dall’ex Ministro Fornero con Fiorello a fare da testimonial, circolato in radio e tv durante i primi mesi dello scorso anno ma dagli effetti tanto deludenti da essere stato descritto recentemente dallo stesso Ministro come “rimasto nel cassetto”;

  • un sito istituzionale, anche esso ormai dimenticato, privo di interattività e che impallidisce al confronto con le migliori esperienze internazionali (si veda su tutti il portale del Apprenticeship National Service inglese e si avrà un eccellente esempio di cosa la comunicazione dell’apprendistato possa essere);
  • un video tutorial istituzionale (1750 visualizzazioni) destinato ai giovani, che illustra il funzionamento della Garanzia Giovani affiancando come fossero indistinti tirocinio e apprendistato e rischiando quindi di alimentare la confusione che già regna a riguardo;

  • un video istituzionale destinato alle aziende (4302 visualizzazioni), dove, oltre la figura quasi caricaturale dell’imprenditore, è da rilevare lo stridore tra la così descritta “occasione per le imprese per formare professionisti ed essere più competitive” e la scelta delle regioni di privilegiare i tirocini.

 

 
Quale che sia la fortuna che incontreranno i messaggi sinora lanciati, chi si occupa di piani di comunicazione istituzionali, dovrebbe operare con la consapevolezza che la cultura non si cambia a suon di spot, né con agognate campagne di marketing virale, bensì solo con la relazione e lo scambio di buone prassi.
 
La comunicazione dell’apprendistato ha insomma bisogno di relazione e storie, storie che semplicemente raccontino che “si può fare” e come. L’apprendistato non è un prodotto da pubblicità, è un esperienza di vita: funziona se qualcuno ce la racconta e la testimonia.
 
Un’operazione fatta di piccoli tasselli, nel brevissimo periodo quasi ininfluente sull’opinione pubblica, ma al contempo capace nell’immediato di ispirare e orientare la ricerca di identità individuale, sia quella di un imprenditore con la passione per il talento, sia quella di un giovane alle prese con la prima ricerca di lavoro.
Si tratterebbe di un incentivo persuasorio che alla lunga offrire un irrinunciabile sostegno alle riforme basate su sgravi, incentivazioni e deregolamentazione.
 
Una visione di politica comunicativa di lungo raggio che punti a costruire progressivamente e pazientemente una cultura imprenditoriale e sindacale favorevole all’incontro sinergico tra formazione e lavoro è invece ancora da attendere. Sino a quando?

 

Francesco Nespoli
ADAPT Junior Research Fellow
@FranzNespoli
 


* Il presente articolo è pubblicato anche su Tempi, 18 giugno 2014, con il titolo Mezza Europa crea occupazione di qualità con l’apprendistato. Perché l’Italia è ferma agli spot con Fiorello?

 
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Un apprendistato senza garanzia
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