Terzo settore: una riforma ambiziosa alla prova dei decreti attuativi

Esiste un’Italia generosa e laboriosa che tutti i giorni opera silenziosamente per migliorare la qualità della vita delle persone. È l’Italia del volontariato, della cooperazione sociale, dell’associazionismo no-profit, delle fondazioni e delle imprese sociali. Lo chiamano terzo settore, ma in realtà è il primo. (Governo Italiano, Linee guida per una Riforma del Terzo Settore, 13 maggio 2014)
 
C’era grande attesa, dopo l’annuncio e la consultazione, avviata dal premier Renzi, oramai un anno fa, sulla riforma del terzo settore. La Camera, approvando il disegno di legge delega licenziato dal Consiglio dei Ministri il 10 luglio scorso, dopo un lungo confronto in XII Commissione, ha consegnato al Senato un testo di riforma con criteri di delega maggiormente definiti, forse anche riducendo un poco le aspettative di innovazione che si erano aperte con la consultazione, ma tutto sommato licenziando un testo equilibrato, che delimitando la discrezionalità dell’esecutivo nella redazione dei quattro decreti legislativi previsti, sembra invitare tutti a riflettere con maggiore approfondimento su quali siano le finalità che si devono investire in questa riforma.
 
Il DDL n. 2617 segna così un passaggio fondamentale per il percorso parlamentare di un provvedimento che punta a due obiettivi: da una parte, introdurre misure per la costruzione di un rinnovato sistema che favorisca la partecipazione attiva delle persone per valorizzare il potenziale di crescita ed occupazione insito nell’economia sociale, dall’altra uniformare e coordinare la disciplina della materia caratterizzata da un quadro normativo non omogeneo, rendendolo fruibile alle mutate esigenze della società civile.
 
La crisi finanziaria degli ultimi anni ha fortemente inciso sulla tenuta economico sociale del nostro Paese, il terzo settore si è confermato sempre più rilevante, riuscendo a muovere l’economia, ma soprattutto a creare occupazione stabile. A darne atto, sono i dati diffusi dal IX Censimento ISTAT, che consentono di rappresentare, per il decennio 2001-2011, il non profit come il settore più dinamico del sistema produttivo italiano, con un aumento del 28% degli organismi e del 39,4 % degli addetti, per un totale di oltre 301.000 istituzioni.
 
Un settore che fa leva sul contributo lavorativo di 4,8 milioni di volontari, 681 mila dipendenti, 271 mila lavoratori esterni e 6 mila lavoratori temporanei, occupando una posizione di assoluto rilievo nel tessuto produttivo italiano, con il 6,4 % delle unità economiche attive.
Tuttavia le molte resistenze al cambiamento, più o meno palesate, ma soprattutto le difficoltà di legiferare con chiarezza in un settore più complesso di quanto comunemente si creda, rimangono molto allo status quo e soprattutto non sembra ancora a portata di mano l’ambiziosa attesa di separare “il grano dall’olio” e di affrontare complessivamente tutto quello che si muove in quel vasto universo denominato terzo settore.
 
La riforma riserva infatti una primaria attenzione alle aree del terzo settore che si occupano di welfare. Certamente è un aspetto fondamentale, vi si trova l’auspicio che attraverso questo intervento, si possa promuovere la costruzione di un nuovo welfare partecipato, fondato su una governance allargata alla partecipazione, per ammodernare le modalità di erogazione dei servizi di welfare, rimuovere le sperequazioni e ricomporre il rapporto tra Stato e cittadini. Quasi ad investire qui le attese di una riforma dello Stato sociale, che pure a 15 anni dalla legge n. 328/2000 potrebbe essere più che necessaria.
 
Il percorso parlamentare ha consentito anche una migliore qualificazione del tema dell’impatto sociale, ricondotto più chiaramente alla realizzazione di benefit per le comunità e rinviando a sistemi di rilevazione e valutazione e non solo ad una mera misurazione. Di grande interesse anche l’ispirazione volta a valorizzare l’economia sociale, sia sulla base di input europei, (Risoluzione del Parlamento europeo del 19 febbraio 2009 e Social Business Initiative della Commissione europea dell’ottobre 2011) sia per effetto di stimoli che da più parti invitano a diversificare ed implementare meglio la dimensione economica e produttiva del terzo settore, favorendo cambiamenti innovativi e strutturati, alla ricerca di un’innovazione sociale i cui contorni rimangono ancora da definire. In questo percorso uno spazio importante lo rivestono i meccanismi premiali ai comportamenti pro sociali dei cittadini e delle imprese.
 
Moltissime le attenzioni che si sono concentrate sugli articoli che riguardano l’impresa sociale, dove il dibattito è stato molto acceso tra spinte innovative, non abbastanza supportate da esperienze concrete, ma molto ispirate dal desiderio di liberare la strada agli investimenti privati ed introdurre una maggiore cultura finanziaria. Si sono trovate infatti le resistenze di quanti, in modo altrettanto poco fondato, erano contrari per principio all’ingresso di strumenti e contenuti di mercato nel mondo del terzo settore. Per questo confronto di culture e di idee si è espresso con la discussione il Parlamento, ma che inevitabilmente dovrà attendere i decreti e i regolamenti attuativi per comprendere meglio quale direzione si potrà imprimere a questo percorso.
 
Resta, in ogni caso, la forza di un provvedimento che mantiene la volontà di costruire condizioni favorevoli e chiare per lo sviluppo di organizzazioni che promuovono partecipazione e cittadinanza, democrazia economica e impegno sociale. È importante che il nostro Paese continui ad alimentare e riconoscere la necessità che nascano ed operino organizzazioni e persone che si basano sulla donazione di tempo, di lavoro, di risorse, nella realizzazione di un senso civico volto al bene comune.
 
Il testo normativo è frutto di un lavoro intenso e partecipato, che ha saputo cogliere l’importanza del confronto diretto. È emersa la capacità, di molte componenti del terzo settore, di saper esercitare uno spazio di proposta, che ha consentito di aprire la strada ad una revisione organica della legislazione di settore, tanto auspicata e richiesta.
 
Così interpretiamo la definizione di terzo settore scelta dal legislatore, che trova poi attuazione anche per le parti più impegnative, con la previsione di riordino della disciplina anche fiscale per un Codice del terzo settore. Il testo chiarito e semplificato l’ambito delle deleghe, definisce per la prima volta, che il terzo settore debba d’ora in poi intendersi come «complesso degli enti privati costituiti con finalità civiche e solidaristiche che senza scopo di lucro, promuovono e realizzano attività di interesse generale, anche mediante la produzione e lo scambio di beni e servizi di utilità sociale conseguiti anche attraverso forme di mutualità, in attuazione del principio di sussidiarietà».
 
Interessanti ed orientate ad ottenere maggiore responsabilità e trasparenza, le richieste di rafforzamento per associazioni e fondazioni, degli obblighi di rendicontazione e rendere più evidenti affidamenti e responsabilità degli amministratori, favorire la partecipazione e il controllo da parte dei soci. Prevedendo obblighi di trasparenza ed informazione, anche verso i terzi, mediante forme di pubblicità degli atti fondamentali degli enti, a partire dai bilanci.
Molto rilevanti e certamente molto impegnativi da realizzare, i controlli e il sistema di vigilanza che dovrà essere posto in capo al Ministero del lavoro. Su questo sistema e su un adeguato regime sanzionatorio, si gioca, a nostro parere una parte importante della riuscita della riforma.
 
Anche se chiaramente non è solo con i controlli formali che si ottiene maggiore trasparenza e responsabilità. Se da un lato si introducono nuove ispezioni dall’altro si apre la revisione della disciplina del Codice Civile in materia di associazioni e delle istituzioni senza scopo di lucro, con la finalità di semplificare il procedimento per il riconoscimento della personalità giuridica.
La previsione di un registro unico del terzo settore prevedrà inoltre un’iscrizione obbligatoria per tutti gli enti che intendono avvalersi di finanziamenti pubblici, dei fondi europei per il sociale, di agevolazioni, o di attività in accreditamento o convenzione con lo Stato.
 
Come anticipato, una parte nevralgica della riforma è certamente la revisione della disciplina sull’impresa sociale. Numerose sono le modifiche apportate dagli emendamenti ai criteri della delega volti a riformare la disciplina prevista attualmente dal d.lgs. n. 155 del 2006. Il dibattito si è concentrato sul tema della destinazione degli utili realizzati dalle imprese sociali, il nuovo testo nella parte relativa alla ripartizione degli utili prende come riferimento il modello cooperativo e stabilisce come criterio della delega «previsione di forme di remunerazione del capitale sociale e di ripartizione degli utili, da assoggettare a condizioni e limiti massimi, differenziabili anche in base alla forma giuridica adottata dall’impresa, in analogia con quanto disposto per le cooperative a mutualità prevalente, che assicurino in ogni caso la prevalente destinazione degli utili al conseguimento degli obiettivi sociali».
 
Pertanto sono stati introdotti due vincoli: il primo fa riferimento alla disciplina delle cooperative a mutualità prevalente. Il secondo è in relazione alla prevalente destinazione degli utili al conseguimento degli obiettivi sociali. Resta invece da chiarire cosa si intenda per criteri di ripartizione degli utili «differenziabili anche in base alla forma giuridica». Se il riferimento è alla disciplina degli enti del Libro I del Codice Civile e delle cooperative, appare opportuna, in quanto queste organizzazioni già hanno limiti molto specifici, se il riferimento è agli enti del Libro V, ovvero alla possibilità per SRL e SPA di distribuire una quota maggiore di utili, rischia di essere eccessivo. In questo percorso è utile richiamare come ottimo punto di riferimento l’attuale articolo 17 del d.lgs. n. 155 del 2006 che stabilisce al comma 3: « Le cooperative sociali ed i loro consorzi, di cui alla legge 8 novembre 1991, n. 381, i cui statuti rispettino le disposizioni di cui agli articoli 10, comma 2, e 12, acquisiscono la qualifica di impresa sociale. Alle cooperative sociali ed i loro consorzi, di cui alla legge 8 novembre 1991, n. 381, che rispettino le disposizioni di cui al periodo precedente, le disposizioni di cui al presente decreto si applicano nel rispetto della normativa specifica delle cooperative».
 
Le cooperative sociali e i consorzi costituiti almeno al 70% da cooperative sociali (ai sensi dell’art. 8 della l. n. 381/91) rappresentano la più importante esperienza di imprese sociali realizzata in Italia e in Europa, è bene che i fattori di successo di questo modello vengano analizzati e riconosciuti, se si vorranno ottenere risultati postivi per le nuove imprese sociali che potrebbero nascere a seguito della riforma.
 
Altrettanto importante è il riferimento alle categorie di lavoratori svantaggiati per i quali valgano i principi di riconoscimento per le imprese sociali di inserimento lavorativo. Anche in questo caso riteniamo positivo che si faccia riferimento alla legge n. 381/1991, prevedendo la ridefinizione (non più la razionalizzazione) di quelle previste dal d.lgs. n. 155/06 (oggi all’art. 2 del suddetto d.lgs. si fa riferimento al regolamento UE 2204/2004, sostituito prima dal regolamento n. 800/2008 e poi dal n. 651/2014). Un eccessiva apertura avrebbe infatti rischiato di determinare una inopportuna “competizione” tra categorie di lavoratori svantaggiati a contendersi i potenziali inserimenti lavorativi nelle imprese sociali.
 
Per finire un cenno al servizio civile, la riforma ha l’ambizione di renderlo “universale”, quindi potenzialmente accessibile a tutti i giovani che ne facciano richiesta. In realtà l’attesa naturalmente ha dovuto confrontarsi con le risorse economiche realmente disponibili, per tanto al momento rimane un meccanismo di selezione che per ora può contare su una dotazione che per il 2016 potrebbe consentire l’accesso a poco più di 20.000 ragazze e ragazzi.
 
Nei prossimi giorni il dibattito si sposterà al Senato dove potrebbero arrivare altre integrazioni al testo, poi tutto si misurerà con la prova sostanziale dei decreti attuativi. Il lavoro comunque è alla fine bene indirizzato, certo si poteva fare di più, ma anche nel terzo settore come per le riforme sul lavoro il nostro Paese si conferma prudente e timoroso nell’affrontare i cambiamenti.
 
Giuseppe Guerini
Presidente di Federsolidarietà Confcooperative
Componente del CESE
@GiuseppeGuerini1
 
Valentina Sorci
Dottore di ricerca in formazione della persona e mercato del lavoro
Università degli studi di Bergamo
@ValentinaSorci1
 
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