Storia e futuro della formazione professionale in Italia. A tu per tu con Nicola D’Amico

La sua “Storia della formazione professionale in Italia” è un libro monumentale (più di 700 pagine) che ricostruisce dall’economia curtense all’economia della conoscenza secoli di rapporto tra giovani, formazione e lavoro. Perché una storia così è ancora attuale per il nostro Paese? E, soprattutto, chi ha più urgenza di conoscerla?
 
Lei dice “ancora così attuale”? La verità è che una storia delle formazione al lavoro, come la stessa formazione al lavoro non è stata “mai” attuale. Se i posti di lavoro seri restano inevasi e i disoccupati riempiono le nostre movide, lo si deve proprio a questa collocazione del lavoro nella categoria della “fatica”. Chi dovrebbe leggere questa storia? I politici, per non discriminare più nella distribuzione delle risorse e sradicare la gramigna burocratica che sta strozzando anche l’operazione Garanzia Giovani, che costa milioni all’Europa. Chi lavora nella formazione, per attingere alle radici della loro professione orgoglio, senso di appartenenza, coraggio. Le famiglie abbienti, per comprendere come la ricchezza delle nazioni, con tutto rispetto, la fanno più gli artigiani che gli avvocati, e che è meglio un capofficina felice che un laureato umiliato. La scuola professionale, che dovrebbe smetterla di dire “vieni da noi, sarai un dipendente”, ma dire “vieni da noi, sarai indipendente”.
 
La storia della formazione professionale, così dice il libro, è fatta di “poche illuminazioni e di molti pregiudizi”. Ci può riassumere in breve quali sono stati e quali sono ancora questi pregiudizi?
 
La cultura delle “Due culture” (che separa umanesimo della parola dall’umanesimo del fare). Tagliare fondi invece di tagliare pastoie burocratiche. Pensare che nei programmi scolastici, oltre a Cicerone, Dante e Pascoli non siano letture umanistiche anche Esiodo, Empedocle, Lucrezio, scrittori che furono amici e cantori delle scienze naturali.
 
Che idea si è fatto de “La Buona Scuola”, in particolare del capitolo 5 “Fondata sul lavoro”? Ritiene che sia uno strumento utile per intraprendere una “via italiana” al sistema duale?
 
Lei sa bene quante volte il lavoro come contributo alla formazione integrale della persona sia stato proclamato e disatteso dalla scuola? Quante volte sono stati beffeggiati Kerschensteiner, Pestalozzi, Capponi? Ci ha provato Cattaneo, ci hanno provato Rosmini, Correnti, il ministro Coppino, Giolitti, Gonella, la nuova scuola media (che nei fatti poi il lavoro lo ha ridicolizzato). Lei crede nei miracoli?!
 
Nonostante i dati e le migliori prassi europee mostrino come l’apprendistato sia un significativo strumento di incremento dell’occupazione giovanile, in Italia è ancora un contratto poco diffuso, soprattutto l’apprendistato di primo e terzo livello. Come spiega questa poca fiducia nell’apprendistato? Questione culturale o questione legislativa?
 
Lo strumento dell’apprendistato non crescerà fino a quando in una scuola luddista, come quella che da noi imperversa dal glorioso Sessantotto, si racconterà ai giovani che il datore di lavoro che ti prende come apprendista ti vuole sfruttare, trasformando in filosofia quella che è una casistica ristretta e sempre subito sanzionata.
 
Quali sono invece i migliori modelli di apprendistato in Italia? In quali territori si applicano e come è possibile metterli a sistema e diffonderli?
 
Territorialmente parlando, è persino tautologico ricordare il gap significativo esistente fra le diverse realtà territoriali, in particolare fra le ripartizioni settentrionali e quelle centro-meridionali, ma il fatto è anche che una diversa tradizione ha creato una diversa qualità di iniziative anche all’interno di queste e spesso nell’ambito di una stessa realtà regionale. In termini di qualità i migliori modelli di apprendistato sono quelli che finiscono con l’assunzione. E sono quelli che si riconoscono non nelle aziende che assumono tantissimi apprendisti (anzi, queste destano sospetti), ma in quelle che si sforzano di integrare capacità operativa con crescita culturale all’interno dell’azienda (in questo le leggi le ostacolano per l’ingordigia del sistema scolastico di fagocitare tutto e di più) e quelle che non  pongono indiscriminatamente come tutor “i vecchi”, gloriosi ma obsoleti, ma hanno il coraggio di investire tempo dei capi più giovani e grintosi, capaci di trasmettere entusiasmo, oltre che conoscenze.
 
Qual è il ruolo dei territori nello sviluppo delle collaborazioni scuola-impresa e della formazione professionale? Bastano gli attuali strumenti (poli tecnico-professionali, ITS) per creare una vera filiera formativa?
 
Visti i vizi nazionali, non metterei in piedi altri esperimenti astratti. Le reti di scuole tra loro possono fare molto. Le organizzazioni professionali debbono fare promozione tra le imprese e vigilare sulle deviazioni.
 
Cosa ne pensa dell’Istruzione e Formazione Professionale regionale? Ci sono buone pratiche che si possono replicare?
 
Quale che sia la cosa che si pensi della formazione professionale regionale, lo Stato deve farsene una ragione. Dobbiamo all’ordinamento regionale se la formazione professionale è diventata materia costituzionale. La patologia c’è in ogni cosa di questo mondo. La formazione professionale regionale cresce dove gli statuti speciali o una grintosa tradizione di autorevolezza (Lombardia) precede – con lo strumento della sperimentazioni – la legislazione statale.
 
Il capitolo di chiusura ha un titolo piuttosto esplicito “Finirà la nottata”. Eppure i dati sull’occupazione giovanile non sono confortanti, l’abbandono scolastico continua ad aumentare, programmi come Garanzia Giovani non hanno inciso sulla riduzione dei Neet. Come mai questo ottimismo? Quali sono i punti di luce in fondo al tunnel?
 
Non c’è niente come le gravi crisi per dare una scossa a un Paese. Più scientificamente parlando, seri studi economici hanno registrato – li riporta anche il mio libro – che non tanto è il progresso a promuovere i numeri dell’istruzione (più soldi nelle famiglie, più figli  a scuola), quanto la crisi (mio figlio avrebbe un lavoro preciso, se non l’avessimo occupato troppo presto in un lavoro generico; mio figlio non sarebbe rimasto senza lavoro con il crollo della nostra azienda se non lo avessimo rinchiuso nell’azienda familiare e gli avessimo dato una indipendenza personale  secondo la sua vocazione e le sue attitudini).
 
Una domanda più personale: in un articolo sull’Internazionale di 2 anni fa l’ex Ministro De Mauro commentava nostalgico l’assenza di nuovi giornalisti e commentatori scolastici, facendo espressamente il suo nome e quello di altri colleghi come Froio, Musu, Tortello. Condivide questa riflessione? Perché i media non si occupano più di formazione in modo sistematico? Ci sa dire come formare una nuova classe di giornalisti scolastici?
 
La nostra generazione fu favorita – erano gli anni Sessanta e proseguimmo poi per il rispetto che ci guadagnammo (non dimentichiamo anche un maestro, Alfredo Vinciguerra e Pietro Maria Trivelli) – perché tutto il Paese era stato galvanizzato prima dal maestro Manzi e poi dalla “scuola media unica”, un mito, un miraggio prima che una realtà. In tempi normali i direttori “sopportano”, più che impiegano, i giornalisti che si occupano di scuola, in genere giovani e precari. Dopo anni di onorata carriera, mi vidi trascurato. Chiesi allora al redattore capo: “Perché non pubblicate più i miei pezzi?” Mi rispose onestamente: “Perché i figli del direttore sono ormai all’università”. La scuola è una sorta di allergia che scoppia nei giornali solo all’apertura dell’anno scolastico, al momento degli esami di maturità e quando i carabinieri acciuffano uno spacciatore davanti una scuola elementare. Se la politica saprà infondere nuovo entusiasmo culturale al Paese, nuova fiducia nella scuola, i direttori dei giornali e delle televisioni sicuramente sapranno come scegliere e far crescere i giornalisti adatti e metterli in prima pagina, come succedeva a noi allora.
 
In chiusura: 3 nomi e cognomi di chi ha fatto la storia della formazione professionale in Italia. E, soprattutto, l’identikit di chi può fare il futuro della formazione professionale in Italia. Abbiamo più bisogno di buoni insegnanti, buoni imprenditori o buoni decisori pubblici?
 
I grandi mecenati di fine secolo XIX, i Florio in Sicilia, i Gaslini a Genova, i Falck, Bernocchi, Pirelli, a Milano. I grandi manager del Novecento, Gobbato (Fiat) e Martinoli. I grandi presidi come Filippo Isnardi o Cristina Pavesi Vismara. Il ministro Coppino, positivista, che nel 1885 introduce nelle elementari “conoscenze del mondo del lavoro”. Si apprezza la buona intenzione. I diplomati delle scuole di avviamento professionale, trasformatisi da operai in imprenditori e artefici del “miracolo italiano” degli anni Cinquanta-Sessanta. Dopo di allora potrei fare solo nomi di chi ha tentato di distruggere la formazione professionale in Italia, senza, per fortuna, riuscirvi.
 
Alfonso Balsamo
Scuola internazionale di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro
ADAPT-CQIA, Università degli Studi di Bergamo
@Alfonso_Balsamo
 
* Nicola D’Amico, giornalista scolastico e storico della formazione. Già Provveditore agli Studi e Direttore Generale del Ministero della pubblica istruzione è stato per decenni uno dei più autorevoli commentatori italiani di politica scolastica. Ha scritto sul Corriere della Sera e ha diretto il quotidiano Il Tempo e la rivista specializzata Campus. Ha collaborato con Rai e Il Sole 24 Ore. Oltre a migliaia di articolo sui maggiori giornali italiani ha scritto, tra l’altro, Cento anni di scuola italiana (Ed. Il Sole 24 Ore) e Storia e storie della scuola italiana (Ed. Zanichelli).  Di recente è uscito il suo ultimo libro: Storia della formazione professionale in Italia – Dall’uomo da lavoro al lavoro per l’uomo, prefazione di Giuseppe De Rita, Franco Angeli, Milano 2014.
 
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