Se il lavoro cambia deve cambiare anche il sindacato*

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Il lavoro sta cambiando. Non solo nei suoi aspetti organizzativi e nei mestieri richiesti. A cambiare è anche la sua stessa natura, l’idea cioè che abbiamo del lavoro, in ragione di fattori sociali, culturali e demografici che incidono sui processi economici molto più, forse, di quanto non facciamo le tecnologie di nuova generazione. Nessuno oggi mette più in dubbio questa affermazione, che era stata anticipata da Marco Biagi già all’inizio del nuovo millennio e che descrive una trasformazione che è ora sotto gli occhi di tutti. Molto più complesso è però capire quali sono le direttrici di questo cambiamento e soprattutto immaginare le modalità di regolazione giuridica e di rappresentazione. Tra gli attori che soffrono di più questi mutamenti di epoche e paradigmi, e le difficoltà organizzative che ne conseguono, ci sono sicuramente i sindacati. Il tema sembra oggi essere diventato di dominio pubblico, soprattutto a partire dalla diffusione in sempre più città italiane di quelle forme di gig economy che abbiamo imparato a conoscere attraverso i riders che ci consegnano il cibo a domicilio, gli autisti di Uber o i temuti braccialetti di Amazon (per ora brevettati ma mai utilizzati). In tutto il mondo i sindacati si sentono particolarmente sfidati. Non solo per un ritardo storico, in Italia più che altrove, a capire le trasformazioni in atto. Ma anche perché non poche, e certo non marginali, sono le forme di auto-organizzazione dei lavoratori che, a prescindere dai profili qualificatori dei contratti con cui rendono la prestazione in termini di subordinazione o autonomia, danno vita a realtà di rappresentanza innovative e slegate, almeno in una prima fase, dalle sigle tradizionali.

 

Il fenomeno pare ancora contenuto, anche se poco ne sappiamo per l’assenza di un monitoraggio puntuale delle dinamiche dei lavori di nuova generazione, ma contribuisce indubbiamente a svelare un nodo principale sul futuro della rappresentanza, in Italia così come nel resto dei paesi occidentali. I sindacati, così come li conosciamo, si sono sviluppati e hanno costruito il loro modello d’azione e di organizzazione sul paradigma fordista del lavoro che ha segnato il Novecento industriale. Un lavoro suddiviso in modo chiaro e per scomparti stagni tra i diversi settori economici (agricoltura, manifattura, terziario) e le diverse forme aggregative (stato, mercato, terzo settore). Un lavoro caratterizzato da rapporti continuativi, spesso a tempo indeterminato. Ma anche un lavoro che si svolgeva in luoghi fisici ben definiti (i confini della fabbrica o dell’ufficio) e in orari determinati.

 

Sappiamo però che oggi il lavoro ha un volto molto diverso. La netta divisione tra i settori produttivi non esiste più, con imprese manifatturiere che producono la maggior parte degli utili offrendo servizi; con imprese del settore dei servizi che operano con logiche proprie della produzione di massa; con un settore agricolo che è sempre più connotato dall’impiego di meccanica, tecnologie innovative e nuovi servizi. Le carriere lavorative sono ormai discontinue, caratterizzate da un susseguirsi di rapporti di lavoro presso diverse realtà, con passaggi repentini tra periodi di formazione e di lavoro e tra situazioni di lavoro dipendente e di lavoro autonomo. Il lavoro è poi sempre più slegato da un luogo definito, così come la gestione dei tempi di vita e di lavoro sta rapidamente cambiando.

L’insieme di questi elementi di trasformazione fa sì che il sindacato tradizionale fatichi ad entrare in contatto con i lavoratori mediante le modalità tradizionali. I lavoratori non si trovano dentro la fabbrica, non si iscrivono al sindacato perché sanno che resteranno in una determinata impresa per tutta la vita. E i lavoratori hanno esigenze di tutela differenti, più concentrate su elementi che li aiutino nelle transizioni di carriera, nella conciliazione vita-lavoro, nella formazione, ecc.

 

Di fronte a questi cambiamenti al sindacato si chiede oggi un mutamento radicale nelle strategie della rappresentanza e della contrattazione collettiva con uno spostamento delle relazioni industriali dal centro alla periferia (azienda e territorio). La direzione è certamente esatta, per cogliere le dinamiche della occupazione e della produttività del lavoro, ma di per sé insufficiente. A dover cambiare sono, per prima cosa, gli attori stessi della rappresentanza non tanto nelle persone e nella leadership quanto negli statuti e nei modelli organizzativi per intercettare i nuovi mestieri, i giovani e le dinamiche territoriali che si differenziano in modo marcato anche a distanza di pochi chilometri. Soprattutto il sindacato dovrebbe ripristinare un confronto franco e leale con le università, i centri di ricerca e gli intellettuali in generale per avviare una analisi sociale e culturale sulla natura e sulla portata più profonda dei cambiamenti economici e produttivi in atto. La sensazione, infatti, è che la rappresentanza stia perdendo anima e, almeno in parte, anche seguito popolare, soprattutto tra i più giovani, proprio per l’assenza di una visione complessiva del lavoro che cambia. Un lavoro che non ha certamente smesso di chiedere riconoscimento e con esso rappresentanza. Un lavoro che, però, chiede oggi risposte nuove a problemi diversi rispetto a quelli su cui è nata e maturata l’esperienza sindacale degli ultimi decenni.

 

Michele Tiraboschi 
Coordinatore scientifico ADAPT
@Michele_ADAPT

 

*Pubblicato anche su Panorama, 10 maggio 2018

 

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Se il lavoro cambia deve cambiare anche il sindacato*