Riforma del lavoro e semplificazione: cambiare la musica o cambiare i suonatori?

Un vecchio professore di musica sosteneva, con un ardito paradosso, che Al Bano suonato/arrangiato da un ottimo esecutore poteva (quasi) sembrare Bach, mentre Bach eseguito da un musicista mediocre avrebbe potuto essere scambiato per Al Bano (con tutto il rispetto per entrambi, ovviamente).
 
Questo paradosso mi è tornato alla mente nel momento attuale, in cui desta una legittima attesa e fibrillazione il fatto che noti ed autorevoli giuslavoristi si confrontino e chiamino a raccolta le parti migliori e le buone volontà del Paese per tentare una riforma epocale della legislazione sul lavoro. ADAPT è in prima fila in questo tentativo, confrontando la propria elaborazione giuridica e la proposta di Statuto dei Lavori con il disegno di Riforma presentato a più riprese dal Sen. Ichino.
Le esigenze, sacrosante, da cui parte questo tentativo – altrettanto sacrosanto – sono quelle di rendere al legislazione più agevole (semplificazione) e rapportata ai tempi ed alle esigenze attuali (modernizzazione) senza perdere le tutele e lo spirito di fondo di una legislazione sul lavoro (sicurezza sociale).
 
Ciò detto, a parere di chi scrive è tuttavia utile, forse indispensabile, una riflessione parallela sugli “attori” del mercato del lavoro, poiché probabilmente è lì (e non solo nella produzione normativa) che si annidano diversi ostacoli alla gestione semplice, responsabile ed efficace del mondo del lavoro.
Facciamo solo qualche esempio, fra i più recenti, ma il discorso potrebbe estendersi a moltissime fattispecie.
 
Tirocini. Vi è un abuso – direi conclamato – nell’utilizzo dei tirocini c.d. “di inserimento lavorativo”. Al di là una normativa frammentata (grazie ad un “federalismo” improvvido sull’argomento) e in continua rincorsa di se stessa, l’abuso presenta tuttavia un aspetto curioso laddove si consideri che per poter attivare uno stage va realizzata una convenzione con un ente promotore, il quale si preoccupa (o dovrebbe preoccuparsi) di esaminare preliminarmente il progetto formativo e la affidabilità dell’ospitante, svolgendo poi una costante azione di tutoraggio del tirocinio medesimo. Fra i principali Enti Promotori figurano soggetti di tutto rilievo nel panorama lavoristico: scuole ed università, soggetti pubblici, anche su proposta di enti bilaterali e associazioni di categoria, Agenzie per l’impiego e uffici periferici del Ministero del lavoro, centri di formazione e orientamento, Servizi di inserimento lavorativo, Consulenti del lavoro (tramite la Fondazione Consulenti); tutti “partner” qualificati a cui, a vario titolo, sono affidati anche altri importanti compiti normativi e regolativi del lavoro e del suo mercato.
Ora, se vi sono frequenti abusi nei tirocini, chi ha sbagliato ? Chi non ha svolto concreta azione di tutoraggio, permettendo l’uso inopportuno (spesso anche reiterato) del tirocinio ? Pare evidente che qualche soggetto non è o non è stato all’altezza del proprio autorevole compito.
 
Apprendistato. Norma più volte oggetto di restyling, siamo arrivati nel 2011 al Testo Unico, probabilmente con diversi punti critici (a tal proposito: proprio quella legge dovrebbe far riflettere sul fatto che l’esigenza di semplificare non sempre equivale a “scrivere poco” o concentrare i concetti) ma comunque con spunti interessanti. Eppure oggi buona parte dell’attuazione dell’apprendistato è “al palo” anche perchè da ormai due anni molte Parti Sociali non hanno saputo riscrivere ad hoc la contrattazione collettiva, andando di rimando in rimando a tener buone regole parzialmente superate (dalla nuova norma). La formazione (e non solo nell’apprendistato) poi non decolla – fra le altre cause -– perché molti, anche fra soggetti pubblici o legittimati, la vedono più come un business o un esercizio di potere che non come una reale ed imprescindibile esigenza del mondo produttivo sano.
 
Detassazione. Altro argomento dai molteplici risvolti: oltre alla criticità della scarsa produttività, da più parti indicata come uno dei fattori di freno del rilancio economico, vi è la necessità di alleggerire il drenaggio fiscale sugli stipendi. Dopo alcuni anni di sperimentazioni, dal 2011 la detassazione è stata (giustamente in linea di principio, tragicamente in via di realizzazione) legata alla contrattazione di secondo livello. Peccato che una bassissima percentuale di accordi hanno realizzato incrementi produttivo-qualitativi, per il resto si è assistito ad una sorta di accordi-lenzuolone che altro scopo non hanno avuto, obiettivamente, che quello della promozione di chi li sottoscriveva, tanto da arrivare ad utilizzare come criterio discriminante non tanto la realizzazione di un benchè minimo sistema aziendale più efficente, bensì la mera appartenenza ad un’organizzazione datoriale (in altre parole: una pura operazione propagandistica).
 
Su altri fronti lavoristici, non va obiettivamente meglio: la pubblica amministrazione sembra allo sbando, d’accordo che le risorse ivi investite sono risicate, però mancano forme di reale coordinamento e professionalità, tanto che dopo una stagione, all’inizio del millennio, in cui le cose sembravano essere cambiate, oggi si ripresentano seri problemi di inefficienza. Molti sedi territoriali di vari istituti sembrano non al corrente delle norme ed addirittura delle istruzioni applicative del proprio ente, l’informatizzazione è un miraggio (oltre la metà deli enti, pur avendo la PEC, non sono organizzati a riceverne e gestire la posta, la sistemazione di intere branche di gestione assicurativa è un flop ricorrente, le “cartelle pazze” proliferano, i collegamenti e gli accessi telematici vanno in tilt, i DURC negativi vengono rilasciati senza le opportune verifiche obbligatorie per legge, gli accertamenti non appaiono ben coordinati e mirati (e gli esempi in merito potrebbero continuare per pagine).
 
Anche il mondo delle competenze (professionisti, ma non solo) mostra diversi lati discutibili: oggi il genio acclamato o quantomeno chi fa successo è spesso chi individua e propugna soluzioni “borderline” (eufemisticamente parlando), l’affidabilità e la serietà cedono talvolta il passo alla ricerca dell’escamotage, del cavillo, della scorciatoia.
 
Persino la magistratura del lavoro sembra non rappresentare più un sicuro riferimento, fra sentenze di mero orientamento ideologico ed enunciazioni di diritto che non sempre appaiono equilibrate e fondate.
Insomma, probabilmente le norme lasciano un po’ a desiderare, ma certo lasciano altrettanto a desiderare gli attori che le applicano, interpretano, gestiscono. Forse in altri Paesi vi sono norme più deboli e meno strutturate, ma una maggiore serietà nel ricercare “sul campo” (anche collaborando fra vari soggetti istituzionali) soluzioni e buone prassi, senza dimenticare una maggiore efficacia nei controlli.
 
Sarebbe sbagliato ed ingiusto generalizzare quanto sopra senza riconoscere i tanti che nei vari ambiti suddetti portano avanti con solerzia e responsabilità la propria funzione, forse malgrado un certo andazzo generale. Le riflessioni che precedono, d’altronde, non hanno lo scopo né della denuncia né della sterile lamentazione, ma vogliono solo arrivare a focalizzare alcuni concetti finali (qui espressi in modo sintetico – e pertanto necessariamente schematico), senza voler in alcun modo mettere in discussione il positivo fermento ricordato all’inizio.
 
Non si vuole attaccare o criticare gli operatori del sistema lavoro, ma bisogna che si realizzino alcune norme e prassi volte ad assicurare la correttezza, la funzionalità e la quadratura istituzionale di tutti i soggetti che operano nel e per il mondo del lavoro, siano essi le organizzazioni di categoria (di datori e lavoratori, a cui si affidano compiti sempre crescenti senza alcuna definizione o vincolo normativo), i professionisti e gli operatori del mercato (che devono avere regole deontologiche e operative più stringenti, e conseguenti controlli), la pubblica amministrazione (che deve ispirarsi a modelli di reale qualità ed efficienza).
Senza questa conversione dei soggetti operatori, ogni norma (a meno che non si insegua il mito della irrealizzabile “norma perfetta”) rischia di arenarsi nelle secche dell’incompetenza, della furberia, della contrapposizione ideologica, alcuni dei veri fardelli del mondo del lavoro italiano.

 
La semplificazione del lavoro oggi si gioca su più fronti, che non sono immediatamente e filologicamente “giuslavoristici”: una rivisitazione delle gestioni e prestazioni previdenziali ed assicurative, ad esempio, o dei criteri di suddivisione dei compiti dei vari Enti che si occupano del lavoro, una ridefinizione di tante obsolete prassi operative, o ancora una uniformità fra norme tributarie, civilistiche, previdenziali ed assicurative .
 
Si consideri se, in una situazione che vede interpreti deboli o disorientati, prima di rifare tutto non sia meglio cominciare con modifiche graduali, ancorché radicali negli effetti. Un impianto nuovo del mondo del lavoro richiede tempo, volontà ed energie (per l’assorbimento del cambiamento, per la sperimentazione, per le inevitabili sbavature, per la ricostruzione delle competenze) che, realisticamente, forse oggi non ci sono (o quantomeno, non sono condivise e diffuse). Se si parlasse di “razionalizzazione” invece che di semplificazione, ci sarebbero da subito tanti settori ed argomenti da affrontare e tante proposte sul campo che cambierebbero, anche radicalmente, pur senza stravolgere l’impianto normativo attuale.
 
Il vecchio detto gattopardesco, per cui «bisogna che tutto cambi perché tutto resti come prima» dovrebbe forse essere qui stravolto: sarebbe forse meglio che cambiasse (almeno) qualcosa, ma seriamente e stabilmente, sotto il profilo normativo, in modo da cambiare nel pratico molto. Un Bach suonato da cani non fa bene a nessuno.
 

Andrea Asnaghi

ADAPT Professional Fellow
 

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