Riflessioni sul part-time senza vincolo di orario minimo previsto dal CCNL CIFA-CONFSAL

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Lo schema di part-time senza vincolo di orario minimo disciplinato dal CCNL CIFA- CONFSAL e messo in rilievo dal Sole 24 Ore nei giorni scorsi consente una riflessione di sistema sul ruolo della della contrattazione collettiva all’interno del sistema regolatorio dei tempi di lavoro (per un approccio analitico generale si veda Inversi et al., ‘An analytical framework for employment regulation: investigating the regulatory space’, Employee Relations, 2017, vol. 39, n.3, pp. 291–307).

Senza voler ripetere l’analisi sui limiti e la dubbia legittimità dell’accordo in relazione al punto in questione (vedi F. D’Addio, M. Tiraboschi, Limiti attuali della legislazione promozionale della contrattazione collettiva. A proposito del contratto part time senza vincolo di orario minimo previsto dal CCNL CIFA-CONFSAL, Bollettino Adapt, 12 giugno 2017), si può certamente utilizzare il caso per riflettere, anche in prospettiva comparata, sui profili analitici e teorici della regolazione della materia, individuando gli spazi di intervento di legge, contrattazione collettiva e autonomia individuale.

 

Esiste una vasta letteratura internazionale sui contratti a zero ore e sulle affini tipologie di lavoro volta a sottolineare il problema del c.d. underemployment (si veda per esempio uno studio Irlandese del 2015 sugli ‘If and When Contractshttps://www.djei.ie/en/Publications/Publication-files/Study-on-the-Prevalence-of-Zero-Hours- Contracts.pdf), ovvero l’utilizzo da parte dei datori di lavoro di contratti che non prevedano un minimo di ore lavorative sufficienti a garantire un’esistenza libera e dignitosa (in particolare, Lambert, S. J., ‘The limits of Voluntary Employer Action for Improving Low-Level Jobs’, in Working and Living in the Shadow of Economic Fragility, 2014, Oxford University Press, Oxford).

 

Ovviamente, casi come quelli americano, inglese o irlandese si differenziano su un piano sostanziale dal punto di vista della regolazione proprio per i differenti assetti istituzionali, quali ad esempio la quasi assenza di una regolazione legislativa incisiva e di una copertura costituzionale estesa e la pressoché totale autonomia lasciata alle parti, collettive ma soprattutto individuali, di poter regolare in maniera autonoma i diversi aspetti dell’orario di lavoro.

Il dibattito anglosassone sui contratti a zero ore e sugli ‘If and When Contracts’ è grosso modo l’equivalente del dibattito Italiano sull’utilizzo dei voucher o del lavoro a chiamata, i quali si differenziano in maniera essenziale dal contratto di lavoro part-time; mentre sembra mancare una discussione sistematica sulla regolazione dell’orario di lavoro   in

ulteriori tipologie contrattuali, magari meno conclamate, che possono produrre effetti di simile precarietà ed insicurezza.

 

Da un punto di vista analitico, la questione richiede di analizzare in un primo momento separatamente le due dimensioni legate all’orario di lavoro:

 

– la durata, che implica la determinazione del numero di ore, minimo o massimo (in questo caso, la domanda che ne consegue: è possibile predeterminare, e se sì a quale livello, un numero minimo di ore e così limitare la libertà individuale? Quale sarebbe la ratio di una tale norma?);

– l’organizzazione, la quale implica la determinazione della collocazione temporale delle ore e della loro prevedibilità (il lavoratore ha diritto alla sicurezza di avere determinate ore prestabilite nell’arco temporale preso in considerazione? Occorre predeterminare un pattern orario e della collocazione giornaliera, settimanale e mensile delle ore? E, se sì, chi può legittimamente determinare le regole attinenti questa dimensione?).

 

Nel caso in questione si ritiene che i problemi si pongano principalmente riguardo la durata, poiché sia la legge che la contrattazione collettiva obbligano le parti a determinare la dimensione organizzativa dell’orario di lavoro. L’art. 154 del CCNL del CCNL CIFA-CONFSAL, che riprende testualmente la previsione legislativa, prevede che ‘nel contratto a tempo parziale è contenuta puntuale indicazione della durata della prestazione lavorativa e della collocazione temporale dell’orario di lavoro con riferimento al giorno, alla settimana, al mese a all’anno’. Ciò significa che la dimensione organizzativa viene rimessa alle parti con l’obbligo, a tutela del lavoratore (sia per requisito di forma, per questioni di informazione sui termini del rapporto di lavoro che sul piano di organizzazione personale della vita del lavoratore), di predeterminare l’ammontare e la distribuzione delle ore.

 

È proprio sul piano dell’organizzazione, dunque, che si cela la differenza tra lavoro a tempo parziale e lavoro a chiamata o tramite voucher. Sotto questo profilo, appare dunque ‘frettolosa’ l’analisi dei commentatori Sole laddove viene equiparato il contratto part-time senza orario minimo all’utilizzo dei voucher, almeno per quanto riguarda il piano dell’organizzazione e della prevedibilità dell’orario di lavoro.

 

Il piano dell’organizzazione implica infatti, in termini pratici, che venga pre- determinata la durata e dunque un numero minimo di ore da distribuire. Tale aspetto organizzativo, come sottolineato in precedenza, non è posto sotto il controllo unilaterale del datore di lavoro, bensì richiede il consenso delle parti per la sua stipulazione e la sua modifica. Nel caso in questione, la legge e la contrattazione collettiva lasciano all’autonomia individuale la determinazione della flessibilità organizzativa e, non prevedendo una durata minima, anche la possibilità di concludere contratti part-time con un numero di ore estremamente ridotto.

 

La questione è particolarmente interessante nell’analisi degli spazi e degli attori della regolazione, poiché si può capire come molto spazio venga in realtà lasciato alla negoziazione individuale dalla contrattazione collettiva, sulla base di una cornice legislativa che, pur prevedendo standard di protezione, affida ampio margine di manovra agli attori collettivi. Gli attori collettivi, almeno nel caso in questione, sembrano tuttavia delegare le funzioni e gli spazi di manovra assegnati dalla legge alla successiva dimensione individuale, troppo spesso marcata da disequilibri informativi e di potere negoziale.

 

In prospettiva comparata, collegandosi al modello teorizzato da Berg et al. (‘Working- time configurations: a framework for analyzing diversity across countries’, in Industrial and labour relations review, 2014, vol. 67, n. 3, pp. 805–837) si può capire come il caso italiano possa rappresentare un modello ibrido tra ‘mandate’ e ‘negotiated regulation(regolazione delegata e negoziale, tipizzata dai modelli francese e svedese), ma che, nel momento in cui la contrattazione rimette all’autonomia individuale la negoziazione di alcuni aspetti dell’orario di lavoro, potrebbe lasciare spazi per interventi unilaterali, con la conseguente apertura verso meccanismi di ‘unilateral regulation’, più familiari ai sistemi angloamericani.

 

Cristina Inversi

PhD Student, Alliance Manchester Business School

The University of Manchester

@CristinaInversi

 

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