Renzi e la riforma in stile Berlino del lavoro

“Un mercato del lavoro molto rigido” contribuisce a tenere l’Italia nella parte bassa della classifica mondiale della competitività. Tornerà a ribadirlo oggi, nella classifica “Global competitiveness index”, il World Economie Forum (Wef), cenacolo globale di banchieri, imprenditori e accademici che s’incontrano a Davos su iniziativa dell’economista svizzero Klaus Martin Schwab. Una constatazione non troppo originale, certo, ma pur sempre un utile promemoria: la riforma delle regole su assunzioni, licenziamenti e contrattazione è urgente non soltanto perché “lo chiede l’Europa”. Ne va del futuro imprenditoriale e occupazionale del paese. Anche se nell’Eurozona, come sa bene Matteo Renzi, una svolta radicale in questo campo può tornare utile per fugare i dubbi brussellesi sulla flemma riformatrice del governo, magari per spuntare quella maggiore “flessibilità” sul risanamento dei conti pubblici di cui si parla da tempo. Perciò il presidente del Consiglio, due giorni fa, ha detto addirittura che la Germania dovrebbe diventare per l’Italia “un modello” e non “un nemico” come a volte viene percepita, soprattutto per ispirarsi alle riforme del mercato del lavoro che hanno contribuito al successo economico di Berlino.

 

L’Italia rimane 49esima, come lo scorso anno, nella classifica della competitività del Wef che sarà pubblicata oggi e che è guidata da Svizzera, Singapore e Stati Uniti. Roma è ancora indietro però rispetto al 2011-’12 (43) e al 2012-’13 (42). Per il singolo indicatore “efficienza del mercato del lavoro”, scendiamo addirittura al 136esimo posto sui 144 paesi censiti. A giudicare dalla stessa classifica, ispirarsi alla Germania conviene: Berlino è quinta al mondo per competitività complessiva e 35esima per efficienza del mercato del lavoro. D’altronde le regole in materia, secondo diversi analisti, hanno contribuito all’abbassamento del tasso di disoccupazione tedesco che nel corso della crisi ha continuato a scendere fino al 5,2 per cento a fronte del 12,6 per cento raggiunto in Italia. Basta un calco legislativo? Non esattamente. Soprattutto perché il “modello tedesco” sul lavoro, cui ha fatto riferimento Renzi, non si fonda soltanto sulle note modifiche normative dell’era Gerhard Schróder, cancelliere socialdemocratico dal 1998 al 2005. A dispetto della vulgata ormai ripetuta in ogni talk show che si rispetti, le parti sociali sindacati e industriali hanno giocato un ruolo chiave nella trasformazione della Germania da “malato d’Europa” negli anni 90 a locomotiva del continente. Saranno pronte le parti sociali italiane a fare altrettanto?

 

Primo punto qualificante del modello tedesco è il progressivo prevalere della contrattazione aziendale su quella nazionale. La percentuale di imprese che prendono come riferimento i contratti collettivi di settore è passata dal 76 per cento del 1995 al 58 per cento del 2008. Nel settore manifatturiero, che rappresenta un quarto del mercato del lavoro tedesco e costituisce la spina dorsale della potenza esportatrice, “in particolare durante la difficile fase degli anni Novanta ha scritto Werner Eichhorst, del think tank tedesco Iza, sulla rivista Diritto delle relazioni industriali (Giuffrè) le pressioni competitive hanno portato a un aumento della contrattazione in deroga, quindi a una lunga fase di moderazione dei salari e aumento della flessibilità salariale e oraria, attraverso accordi collettivi caratterizzati da clausole di uscita che permettevano una deroga a livello aziendale”. Secondo uno studio pubblicato di recente da quattro economisti tedeschi sul Journal of economie perspectives, alla luce dei costi della riunificazione del paese e dei rischi concreti di delocalizzazione nel vicino est europeo, i sindacati giunsero a un compromesso con gli imprenditori: maggiore flessibilità contrattuale (per orari di lavoro e paga) in cambio di una conservazione dei posti di lavoro. Negli anni ciò si è rivelato decisivo per un forte recupero della produttività di molte aziende. Possibile replicare tutto ciò nel paese che ha fatto dell’ad di Fiat, Sergio Marchionne, il nemico pubblico numero uno per la sua volontà di uscire dallo schema della concertazione nazionale? Le riforme Hartz del governo Schröder hanno poi razionalizzato il sistema di welfare, su questo non c’è dubbio, e rafforzato per esempio il ruolo delle agenzie di somministrazione del lavoro. Carlo Dell’Aringa, docente di Economia politica alla Cattolica di Milano, interpellato ieri dall’Agi ha detto: “Pur avendo sussidi di disoccupazione più generosi dei nostri, i tedeschi, attraverso politiche che hanno spinto i disoccupati a trovare nuovi impieghi, sono riusciti a risparmiare risorse che hanno usato per ridurre il cuneo fiscale. Questo è l’aspetto che ha permesso alla Germania di portare a termine tutte le ristrutturazioni industriali necessarie”. Il governo Renzi, dopo le promesse non mantenute dagli ultimi esecutivi sul superamento del sistema della cassa integrazione (che tutela i posti di lavoro più che i lavoratori), riuscirà a muoversi in questo senso? Considerata infine pure l’importanza del “celebre sistema duale tedesco di formazione che ha consentito, tramite l’apprendistato scolastico, un contenimento della disoccupazione giovanile e alti livelli di competenza e produttività dei lavoratori ha  scritto il giuslavorista Michele Tiraboschi, coordinatore scientifico di Adapt scopriremo nei prossimi giorni se quello sul ‘modello tedesco’ sarà l’ennesimo annuncio che si brucia nello spazio di una conferenza stampa o se, invece, questa dichiarazione rappresenterà una svolta per far decollare un tema complesso come quello delle riforme del lavoro”. Certo non dipenderà solo da Renzi.

 

Renzi e la riforma in stile Berlino del lavoro
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