Il futuro del lavoro passa dalle città. A proposito del caso Bergamo

Quale futuro per Bergamo? Quali prospettive occupazionali per i suoi giovani in un mercato del lavoro ancora asfittico e con livelli di disoccupazione senza precedenti? Poche sono le certezze e ancora meno i progetti di rilancio e innovazione che consentano alla nostra città di posizionarsi tra le aree di maggiore attrattività su scala globale. Non solo per la bellezza dei suoi monumenti. O per la sua tradizione di terra di lavoratori e faticatori dalla forte tempra. Ma anche per la qualità, il talento e lo spirito di innovazione dei suoi giovani abitanti che non sono altro che la Bergamo del futuro.

 

Quello che sappiamo è che la geografia del lavoro sta profondamente cambiando. Non altrettanto accade per le regole del lavoro. Leggi e contratti collettivi ancora non colgono la dimensione globale e l’irreversibilità delle trasformazioni che stiamo vivendo. Ci sta provando Matteo Renzi, con il suo Job Act, ma è ancora troppo presto per esprimere un giudizio sulla sua proposta. La profonda arretratezza di una certa cultura politica e sindacale, che pensa di affrontare problemi nuovi utilizzando schemi del passato, non impedisce i cambiamenti. Semmai li accelera. Inducendo imprese e operatori economici a delocalizzare le produzioni nei mercati emergenti, dove i processi di concentrazione, innovazione e specializzazione sono possibili o comunque agevolati da istituzioni e sindacati.

 

Le stesse dimensioni abnormi della economia sommersa stanno a indicare il persistere di fenomeni patologici e vocazioni elusive di norme di legge e adempimenti fiscali e contributi, ma anche il vibrante dinamismo di un Paese ancora vivo. Un Paese che cresce e si sviluppa senza tuttavia trovare adeguata rappresentazione nella legislazione vigente ancora ferma al prototipo di un processo produttivo statico e massificato, la fabbrica, con rigide logiche di gerarchia e subordinazione. Eppure basterebbe leggere Steven Johnson – che col suo libro Dove nascono le grandi idee ha profondamente influenzato Enrico Moretti, l’economista italiano autore de La nuova geografia del lavoro apprezzato da Barack Obama – per capire che il futuro del lavoro è legato alla capacità di innovazione tramite lo sviluppo delle competenze e delle professionalità che caratterizzano i nuovi mestieri. Cosa possibile solo rivoluzionando il rapporto e la collaborazione tra sistema educativo e formativo, territorio, imprese.

Sappiamo soprattutto che il cambiamento e i nuovi lavori nascono all’interno dei centri urbani. Non conta la dimensione o la posizione geografica delle città. Rileva, piuttosto, la capacità di attirare talenti ed eccellenze e creare le condizioni perché possano liberamente esprimersi e radicarsi in un circolo che si autoalimenta come insegna negli USA l’esperienza di successo della Silicon Valley.

 

Anche in Italia ci proviamo. Lo ha recentemente segnalato la “Nuvola” del Corriere della Sera, la rubrica curata da Dario Di Vico che racconta le storie del lavoro che cambia. Pensiamo a quanto accadrà nei prossimi giorni in un monastero di Matera dove si “rinchiuderanno” per alcuni mesi esperti di innovazione, creativi, scienziati. L’obiettivo è di condividere le loro competenze e le loro esperienze con la popolazione, rispondendo ai loro bisogni e cercando di giungere insieme a soluzioni dei problemi di sviluppo di una città del profondo Sud ancora segnata da una grande crisi, ma dalle enormi potenzialità. Una immagine emblematica del nostro Paese, a ben vedere.

 

Una città che ignori questi cambiamenti e resti arroccata su logiche del passato non ha futuro. I cambiamenti sono troppo veloci per non affrontarli con l’arma dell’innovazione pur nel rispetto della storia e della tradizione. L’esempio di Matera – e di centinaia di altre città del globo che stanno procedendo nella direzione del cambiamento – può essere uno spunto propositivo anche per la nostra Bergamo. E quale location migliore, destinata a diventare un catalizzatore di innovazione e creatività se non il monastero di Astino. In questo modo si rilancerebbe, nel rispetto dalla tradizione, il ruolo del monastero come centro culturale e progettuale capace di preservare e rilanciare la ricchezza di un territorio importante del nostro Paese e della nostra Regione come fu nella fase del suo massimo splendore.

 

Da qui dovrebbe partire il dibattito sul futuro di Bergamo anche in vista della imminente competizione elettorale. Diciamo fine alla vecchia politica autoreferenziale e parlata, che sa solo litigare e demolire ogni progetto di cambiamento e ogni tentativo propositivo orientato al fare. Raccogliamo intorno ad Astino esperti di innovazione, giovani talenti, creativi, progettisti, maestri e allievi provenienti da ogni parte del mondo. Catalizziamo qui, in questa spettacolare porta verso il futuro, le energie positive dei tanti giovani bergamaschi in attesa di lavoro e le vocazioni professionali di coloro che sono orientati al cambiamento. Si dimostrerebbe così che Bergamo non è solo una città in grado di attrarre volumi considerevoli di un turismo “mordi e fuggi”, non sempre di qualità. Una città da vedere e godere per poche ore o giorni. Bergamo è una splendida città, resistente come la sua gente e fortemente coesa, dove si vive bene e dove è ancora possibile sviluppare un progetto imprenditoriale e attirare investimenti stranieri a condizione però di portare quel giusto grado di innovazione nei processi produttivi pur nel rispetto dei valori identitari e delle tradizioni del territorio. Cosa stiamo aspettando?

 

 

Michele Tiraboschi

Coordinatore scientifico ADAPT

@Michele_ADAPT

 

* Il presente articolo è pubblicato anche in L’Eco di Bergamo, 14 gennaio 2013.

 

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Il futuro del lavoro passa dalle città. A proposito del caso Bergamo
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