Politically (in)correct – Vent’anni dopo la manifestazione del Circo Massimo

Bollettino ADAPT 28 marzo 2022, n. 12

 

Abbiamo appena ricordato il ventennale dell’assassinio di Marco Biagi. È il caso di ricordare un’altra ricorrenza: il 23 marzo sono trascorsi vent’anni dalla grande manifestazione promossa dalla Cgil al Circo Massimo in difesa dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori. Leggiamo di seguito il racconto di quella giornata pubblicato su Collettiva (il giornale on line della Cgil) da Alessandro Genovesi, segretario della Fillea, uno dei dirigenti più stimati di quella Confederazioni. “Venti anni fa esatti il Circo Massimo accolse tre milioni di persone. Fu la più grande manifestazione della storia repubblicana. Lavoratrici e lavoratori, giovani studenti e trentenni precari, pensionate e pensionati, invasero Roma, ma non solo. Sotto le bandiere della Cgil si raccolsero centinaia di migliaia di militanti e simpatizzanti dei partiti di sinistra, dei Ds e di Rifondazione, ma anche centinaia di migliaia di democratici, diversi anche iscritti ad altri sindacati”. Da qui le parole riscrivono la cronaca. E tracciano il contesto in cui si svolse quella iniziativa.

 

“Tutti figli di una stagione d’impegno civile (erano gli anni dei comitati, dei girotondi, dell’onda lunga di una globalizzazione delle ingiustizie che aveva visto reagire movimenti laici e cattolici, scout e centri sociali) che ritenevano “estremiste” non tanto le parole d’ordine del “cinese” (alias Sergio Cofferati), ma l’attacco portato ai diritti dei lavoratori (l’articolo 18) e, più in generale, a un “patto sociale” che il berlusconismo delle rendite, delle leggi ad personam, dell’attacco all’ambiente (ricordate Lunardi e le leggi obiettivo?), minacciava nelle sue fondamenta’’. E i nemici? Eccoli.

 

“Era il blocco che andava dai Parisi di Confindustria ai grandi speculatori delle coste sarde, dalle temerarie sparate sulla resistenza come “guerra civile” e dei giovani di Salò da perdonare al massacro sistematico dell’indipendenza della magistratura, quello a cui quella piazza si contrapponeva. In un clima reso più teso dal barbaro omicidio avvenuto pochi giorni prima da parte dei delinquenti delle Br contro il professor Biagi (il secondo giuslavorista colpito, dopo D’Antona nel 1999)’’.

 

In effetti si trattò di una grande manifestazione, anche se la polizia ridimensionò il numero dei partecipanti in 700mila (comunque tanti). Forse sarebbe stato il caso di ricordare quale era il merito di quel conflitto. Non era in atto alcun tentativo di abrogare l’articolo 18; il Governo si limitava a proporre alcune deroghe sperimentali alla reintegrazione sul posto di lavoro. Ricordiamo, pro veritate, quali erano quelle modifiche che erano divenute un vero e proprio casus belli. La norma rinviava per quattro anni l’applicazione della reintegra giudiziaria nel posto di lavoro per fare spazio alla soluzione alternativa del risarcimento monetario in alcuni casi specifici. Si trattava delle aziende che intendevano uscire dal sommerso e che certamente consideravano la disciplina vigente dei licenziamenti un disincentivo in più contro l’emersione. Oppure di aziende, ora al di sotto del limite critico dei 15 dipendenti, che si sforzavano di non aumentare il numero degli occupati (e quindi di non crescere) proprio per non incorrere nell’applicazione piena dell’articolo 18. E ancora di lavoratori assunti a termine ai quali non veniva trasformato il loro rapporto a tempo indeterminato proprio per le medesime ragioni. Con l’eccezione dei dipendenti in imprese con meno di 15 dipendenti per i quali sarebbe proseguita (come previsto dalla legge) solo la tutela di carattere patrimoniale, a nessuno delle altre fattispecie si sarebbe violata la tutela contro i licenziamenti ingiustificati. Grazie alle nuove norme – che tra l’altro recepivano idee maturate, in quegli stessi anni, in ambienti di sinistra – lo stallo si sarebbe sbloccato, sia pure attraverso la sperimentazione e la gradualità. E con tanta prudenza.

 

Peraltro il destino cinico e baro assegno il merito di affossare, nel ddl intitolato a Marco Biagi, le norme sperimentali incriminate alla Cisl e alla Uil che, sottoscrivendo con la Confindustria e il Governo, il c.d. Patto per l’Italia alcuni mesi dopo, ottennero non solo l’eliminazione di due delle possibili deroghe (rimase soltanto quella relativa alla trasformazione dei contratti a termine), ma anche lo stralcio dell’articolo e la sua collocazione su di un binario morto.

 

Genovesi non ha resistito a corredare quella manifestazione di un significato palingenetico contro una sorta di “alleanza del Male2 guidata dal Governo Berlusconi. Sono un po’ gli stessi toni general-generici, quasi meteoropatici, certamente purchessia, contenuti nelle motivazioni dello sciopero generale – a due pistoni – del 16 dicembre scorso. Basta far di conto per notare che tra l’uccisione di Biagi e la radiosa giornata del 23 marzo, trascorrono pochi giorni. Ovviamente nessuno pretende di trovare un collegamento tra i due eventi. Ma sarebbe inutile negare che ambedue questi fatti appartengono (appunto) al medesimo contesto polemico che avvelenò il dibattito dalla pubblicazione del Libro Bianco in poi e che contribuì a trasformare Biagi in un simbolo di quanto si voleva combattere con la mobilitazione “più grande della storia del sindacato”. Del resto Marco non aveva mai nascosto la sua opinione a proposito della disciplina del licenziamento individuale ingiustificato.

 

Il 21 marzo, a distanza di due giorni dall’assassinio di via Valdonica e due giorni prima della grande manifestazione, Il Sole 24 Ore aveva pubblicato il c.d. editorialino (Marco lo aveva definito così) che uscì postumo come un lascito etico e politico. Scriveva Marco: “Il nostro diritto del lavoro è diventato una materia di forte richiamo anche per l’opinione pubblica. Solo qualche tempo fa nessuno avrebbe mai immaginato che sulle riforme del mercato del lavoro si scaricasse una fortissima attenzione dei mezzi di informazione. Ed ora che, dopo le ultime scelte del Governo sulla riforma sperimentale dell’art. 18, si è alla vigilia di uno scontro sociale con tanto di sciopero generale, anche le relazioni industriali entreranno in uno stato di sofferenza. In realtà l’art. 18 c’entra poco o nulla. Non possiamo far finta di non vedere che il vero dissenso non è tanto (o non solo) riferito a questa norma pur così emblematica nel nostro ordinamento. Dopo tutto nel recente accordo sui Comitati Aziendali Europei, trasponendo una direttiva tanto attesa, le parti sociali si sono accordate nel non richiamare più l’art. 28 dello Statuto dei lavoratori (comportamento antisindacale). Una norma non meno caratteristica, per molti anni vera e propria bandiera della sinistra sindacale. Il vero terreno di scontro è più in generale quello riguardante un progetto di riforma dell’intera materia, da un lato, e la difesa strenua dell’impianto attuale, dall’altro’’. E concludeva come se fosse un presagio di ciò che gli sarebbe accaduto: “Ogni processo di modernizzazione avviene con travaglio, anche con tensioni sociali, insomma pagando anche prezzi alti alla conflittualità”. Nei giorni scorsi il testo dell’editorialino è stato pubblicato tante volte. Ma si tratta di un monito che dobbiamo mandare a memoria, come se fosse una preghiera.

 

Giuliano Cazzola

Membro del Comitato scientifico ADAPT

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