Politically (in)correct una rubrica ADAPT sul lavoro – Il pensiero di Marco Biagi e il Jobs Act nel tredicesimo anniversario dell’assassinio

Inizia oggi, con una manifestazione organizzata dall’Unione metropolitana della Cisl bolognese, la settimana in cui si svolgeranno gli eventi celebrativi della tredicesima ricorrenza dell’assassino di Marco Biagi il 19 marzo 2002. Le iniziative saranno al solito numerose ed autorevoli non solo per coltivare la memoria di un grande italiano, ma anche per ricordare (e compiangere) un indimenticabile amico che ha occupato un posto importante nella vita di tanti di noi.
 
Noi non ricorderemo gli eventi in programma (ci limitiamo a segnalare la presentazione del primo rapporto sulla contrattazione a cura di ADAPT) nel timore di dimenticarne qualcuno e di fare un torto a un gruppo di persone, magari non di nostra conoscenza, che il 19 marzo di ogni anno avvertono il dovere morale di onorare Marco, anche senza averlo conosciuto di persona.
 
Scrisse Biagi nel suo “editorialino”, pubblicato postumo il 21 marzo 2002 su Il Sole 24 Ore: «Ogni processo di modernizzazione avviene con travaglio, anche con tensioni sociali, insomma pagando anche prezzi alti alla conflittualità». Il professore bolognese, al di là dei pericoli che consapevolmente correva di persona (purtroppo le sue preoccupazioni si rivelarono ben presto fondate), aveva compreso quanto fosse dura la battaglia per quella che lui chiamava la “modernizzazione” non solo del diritto, ma della cultura, dell’idea stessa del lavoro. Altri, prima di lui, da Ezio Tarantelli a Massimo D’Antona, avevano pagato con la vita il loro impegno nello sfidare gli ideologismi nel nome del cambiamento.
 
Ad ognuno di essi vanno dedicati, in queste ore solenni, i versi del poeta W.B. Yeats:
Ora che ormai ci siamo stabiliti
quasi definitivamente in questa casa, nominerò gli amici
A cui non è possibile cenare insieme a noi
Vicino a un fuoco di torba nella torre antica, e dopo aver discusso
Fino alle tarde ore arrampicarsi per la scala a chiocciola
Per andarsene a letto: esploratori
Di verità dimenticate, o soltanto compagni della giovinezza,
Tutti, tutti stanotte mi sono nel pensiero essendo morti”.
 
Non c’è dubbio, però, che la vicenda umana e professionale di Marco Biagi continui a sfidare, meglio e più a lungo di ogni altra, l’usura del tempo e l’oblio della memoria. Ciò non dipende soltanto dall’eroismo di Marina Orlandi, dall’abnegazione dei suoi allievi (in particolare di Michele Tiraboschi) ed amici nel tenere viva, alimentare e trasmettere la fiaccola accesa da Marco nelle tante attività che lo videro promotore e protagonista. E che gli sopravvivono. Il fatto è che ormai il pensiero e l’opera di quel giurista – forse sottovalutati nel suo tempo, perché rivolti a risolvere cruciali problemi concreti piuttosto che a seguire fallaci ideologie o astratte teorie giuridiche – ormai sono diventati una “pietra di paragone” nel campo della legislazione del lavoro.
 
La legge che porta il suo nome ha segnato un discrimine, una linea di confine nel campo del diritto del lavoro. La sua impostazione è stata sia condivisa che contestata: ma nessuno ha potuto prescinderne. E, soprattutto, anche i più acerrimi nemici di quella cultura giuridica sono stati costretti ad arrendersi ad essa, in nome di quel necessario senso pratico che, alla fine, costringe il legislatore ad assecondare la realtà piuttosto che ostinarsi a negarla. E sarà così anche nelle celebrazioni dei prossimi giorni.
 
Nel tredicesimo anniversario della morte di Biagi muovono i primi passi due decreti legislativi in attuazione del Jobs Act Poletti 2.0 che rappresenta il clou della politica del lavoro del Governo Renzi. L’attenzione degli osservatori è concentrata sul d.lgs. n.23/2015 che istituisce il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti ma che, effettivamente, stabilisce una nuova disciplina del licenziamento individuale per i nuovi assunti, praticamente “liquidatoria” dell’articolo 18 dello Statuto, in quanto la sanzione del recesso ingiustificato diventa normalmente obbligatoria (salvo le eccezioni previste) anziché reale. Ma per capire i rapporti tra la nuova impostazione legislativa e la legge Biagi (con annessa la decretazione applicativa) occorrerà seguire l’iter del decreto sulle forme contrattuali ora all’esame delle Commissioni parlamentari ad esprimere il parere di competenza.
 
Non c’è dubbio – chi scrive lo ha sostenuto più volte – che l’ispirazione complessiva del Jobs Act risente della teoria, diffusa nel dibattito di questi anni, che i rapporti atipici, regolati con meticolosità e sapienza giuridica da Marco Biagi, fossero predisposti ed utilizzati allo solo scopo di sottrarsi al giogo di un contratto a tempo indeterminato imprigionato nel “carcere di massima sicurezza” dell’articolo 18 dello statuto. Sarebbe bastato, secondo quella tesi, modificare la disciplina del recesso per riportare quel rapporto al centro del mercato del lavoro, liquidando così tutte le forme ritenute spurie e truffaldine. Non era questa l’opinione del mio amico Marco Biagi, il quale non pensava affatto di introdurre, nella legge a lui intestata, tipologie flessibili in entrata, allo scopo di consentire ai datori di aggirare, in uscita, le forche caudine della reintegra da parte del giudice.
 
Biagi riteneva, giustamente, che la frammentazione esistente nella realtà del mercato del lavoro potesse essere affrontata in modo adeguato e pertinente – ed utile alle imprese ed ai lavoratori – solo attraverso la previsione di una gamma di contratti specifici, mirati a regolare le diversità delle condizioni lavorative, anziché imporre, per via legislativa, una sorta di reductio ad unum nell’ambito di un contratto a tempo indeterminato, sia pure meno oppressivo per quanto riguarda la tutela del licenziamento. È questa la medesima teoria che avrebbe dovuto portare alla “potatura” delle forme contrattuali flessibili allo scopo di dare centralità al contratto di lavoro a tempo indeterminato tanto di vecchio quanto di nuovo conio. Alla fine, però, questa operazione di semplificazione sembra aver ridotto la sua “spinta propulsiva” a fronte delle esigenze effettive del mercato del lavoro. Vengono soppresse due forme (l’associazione in partecipazione e il lavoro ripartito), tanto per fare, per pagare un prezzo ad un’esigenza che è più di carattere politico che altro. Ma i danni – pur esistenti – risulteranno essere limitati.
 
Più serio è il problema delle collaborazioni, dove sembrerebbe persino che il Governo intendesse ritornare – con il superamento dei contratti a progetto – alla situazione precedente la legge Biagi, abbandonando il criterio-filtro del progetto. Si tratta di un passaggio delicato che coinvolge il posto di lavoro di centinaia di migliaia di persone. Nei testi circolanti sono previste alcune “uscite di sicurezza” in particolare per: a) le collaborazioni regolate da discipline specifiche previste dalla contrattazione collettiva in ragione delle particolari esigenze produttive ed organizzative del relativo settore; b) le collaborazioni prestate nell’esercizio di professioni intellettuali per i quali e necessaria l’iscrizione ad albi. È in tale contesto che le parti sociali saranno tenute a dar prova di quel realismo che ha contraddistinto l’opera e il pensiero di Marco Biagi. E che, alla fine, ha avuto ragione con tutti i suoi nemici.
 
Giuliano Cazzola

Membro del Comitato scientifico ADAPT

Docente di Diritto del lavoro UniECampus

 
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