Politically (in)correct una rubrica ADAPT sul lavoro – E se le premesse della riforma della contrattazione fossero già presenti nell’ordinamento?

Nello scenario suggestivo dell’Expo (che alla fine della relazione si è presa l’evviva insieme a quello per l’Italia) si è svolta, in vistosa assenza del premier, l’Assemblea della Confindustria. In quella sede, ormai giunto alla fine di un mandato che non troverà posto nell’albo d’oro dell’Associazione, il presidente Giorgio Squinzi ha lasciato in eredità al suo successore un compito tutt’altro che semplice. «Se rivendichiamo il diritto di regolare i nostri rapporti piuttosto che qualcuno proceda per legge – ha affermato Squinzi – , dobbiamo completare il quadro delle nostre relazioni sindacali». E ha aggiunto: «Abbiamo fatto un importante accordo sulla rappresentanza, ora serve mettere ordine nelle regole della contrattazione», per evitare «che le imprese siano costrette a sommare i costi di due livelli» di negoziato.

 

Il suo invito (a privilegiare la contrattazione di prossimità) ha ricevuto un riscontro positivo da parte della Cisl ed una risposta velenosa di Susanna Camusso («Confindustria propone la ricetta più antica del mondo: il taglio dei salari»). La Uil di Carmelo Barbagallo, dal canto suo, è intervenuta nel dibattito con un contributo “cerchiobottista” («Dobbiamo far crescere la contrattazione di secondo livello, ma all’interno di un contratto nazionale»), pertanto inutile.

 

In realtà, la struttura della contrattazione è arrivata ad un bivio, dove è divenuta obbligatoria una scelta tra la conservazione dell’assetto esistente e l’aderenza ai processi produttivi ed organizzativi in atto e in prospettiva.

 

La storia – anche quella delle relazioni industriali – non si ripete mai. Ma la sfida a cui sono chiamate le parti sociali non è troppo diversa – quanto a spessore culturale e ad impegno politico e organizzativo – da quelle che dovettero affrontare alla fine degli anni ’50 e nei primi del decennio successivo del secolo scorso quando si pose con forza il problema di superare l’esclusività della contrattazione nazionale (vero e proprio residuo del periodo corporativo). La medesima sfida che si presentò a cavallo della metà degli anni ’80, allorché ebbe inizio il tormentone, che terminò solo nel 1992, dell’abolizione dell’indennità di contingenza.

 

In ambedue le circostanze – sia pure in condizioni economiche e sociali differenti – il sindacato si trovò nella necessità di optare tra l’emarginazione e la possibilità di esercitare ancora, e in termini nuovi, la sua funzione essenziale di autorità salariale. Dopo la storica sconfitta, nel 1955, della Fiom nelle elezioni della Commissione interna alla Fiat, Giuseppe Di Vittorio, analizzò quel risultato shock con le seguenti parole: «Il progresso tecnico e la crescente concentrazione monopolistica dei mezzi di produzione, accentuano continuamente queste differenze, determinando condizioni di vita e di lavoro estremamente differenziate fra vari gruppi di operai anche in seno alla stessa azienda. Il fatto che la Cgil – proseguì Di Vittorio – sottovalutando questo processo di differenziazione, abbia continuato negli ultimi anni a limitare la sua attività salariale quasi esclusivamente alle contrattazioni nazionali di categoria e generali, è stato un grave errore […]. La situazione oggettiva ci obbliga – concluse – a far centro della politica salariale la fabbrica, l’azienda».

 

Gli anni del “miracolo economico” (quando il Pil cresceva con tassi degni della Cina di oggi) aveva determinato, infatti, margini di produttività trascurati e negletti da parte della contrattazione collettiva e requisiti dalle politiche salariali (spesso discriminatorie) delle imprese. Il sindacato doveva diventare protagonista dello scambio classico (prestazione/retribuzione) del rapporto di lavoro attraverso l’affermazione della contrattazione aziendale, fortemente contrastata dai datori e dalle loro associazioni rappresentative. Negli anni ’80, l’automatismo della “scala mobile”, che inseguiva e stabilizzava un tasso d’inflazione a due cifre (talvolta anche a due decine) era divenuto il principale fattore d’incremento delle retribuzioni, nello stesso momento in cui provocava la loro progressiva e costante svalutazione: una sorta di illusione ottica che mostrava ai lavoratori buste paga gonfiate da processi paragonabili a gravidanze isteriche.

 

Il Protocollo del 1993 contribuì a riorganizzare la struttura della contrattazione collettiva, “specializzandone” i due livelli: il contratto nazionale finalizzato alla difesa del potere d’acquisto, la contrattazione decentrata con l’obiettivo di remunerare la produttività. Già alla fine del decennio, tuttavia, si avvertì l’esigenza di andare oltre l’impostazione del Protocollo. «Il ccnl – stava scritto al punto 4.3 della “relazione finale” della Commissione Giugni a proposito della revisione degli assetti contrattuali – dovrebbe rimanere una sede determinante del sistema contrattuale e, tuttavia, potrebbe essere ridimensionato quantitativamente e qualitativamente […] Questo significa…valorizzare il suo ruolo regolatore sui minimi normativi, con una contemporanea riduzione degli istituti considerati […]. In conseguenza delle modifiche apportate al ccnl – proseguiva il documento – il secondo livello avrebbe un ruolo funzionalmente più specializzato…sia dal punto di vista normativo/organizzativo […] sia da quello retributivo».

 

Ma il vero punto di svolta della relazione riguardava la proposta di consentire espressamente, su accordo delle parti, l’introduzione delle cosiddette “clausole di uscita”, tali da permettere «entro certi limiti e a precise condizioni, definite nel ccnl, di derogare a livello aziendale e/o territoriale alla disciplina negoziata a livello nazionale».

 

Alcuni anni dopo, Marco Biagi, nel Libro Bianco, ipotizzò, in continuità con l’elaborazione della Commissione Giugni, «una sorta di “derogabilità assistita” […] al fine di corrispondere alle attese di flessibilità delle imprese ma anche alle nuove soggettività dei prestatori di lavoro». E lungo tale problematica che si stavano, allora, esercitando – bon gré mal gré – la parti sociali in altri Paesi europei (dalla Germania alla Svezia), mettendo in causa il principio che regola la gerarchia delle fonti contrattuali e che vieta – commentò, in proposito, il Cnel – ai livelli contrattuali aziendali di rinegoziare i contenuti definiti nei contratti collettivi regionali.

E in Italia? È stato necessario arrivare al 2011 (dopo l’accordo separato, senza la Cgil, del 2009) per accostarsi timidamente a tali criteri. Ma l’influenza del vecchio sistema è tuttora prevalente. Eppure, basterebbe guardarsi attorno per rendersi conto che i suoi presupposti sono venuti meno. Quale potere d’acquisto potrà mai garantire il contratto nazionale in una congiuntura economica in cui l’inflazione viene creata artificialmente? Basterebbe mettere a confronto l’ammontare dei miglioramenti salariali attesi negli stabilimenti Fca (a fronte del raggiungimento degli obiettivi produttivi indicati) e quelli conseguiti nel rinnovo di un contratto nazionale di un settore, tradizionalmente “ricco” come il credito, per rendersi conto della maggiore adeguatezza del modello Marchionne.

 

Ecco perché ci saremmo aspettati da Giorgio Squinzi qualche parola di autocritica nei confronti della linea di condotta della presidenza di Emma Marcegaglia al momento della vertenza Fiat, dalla vicenda di Pomigliano in poi, fino all’uscita del Lingotto dall’Associazione. La riflessione autocritica avrebbe potuto condurre la Confindustria a guardare non davanti a sé, ma nello specchietto retrovisore; e a riconoscere che i capisaldi – quanto meno le premesse – della riforma della contrattazione sono già presenti nell’ordinamento.

 

Il new deal non nascerà mai da un nuovo protocollo in cui le parti, rimanendo all’interno della camicia di forza dei due livelli, prenderanno reciprocamente l’impegno di potenziare la contrattazione di prossimità. Quali sono, dunque, questi capisaldi? Il primo sta nella disponibilità del Governo e riguarda l’incentivazione strutturale ed adeguata delle forme di retribuzione derivanti dalla contrattazione decentrata. Il secondo è già adesso nelle mani delle parti sociali e poggia sull’articolo 8 del dl n. 138 del 2011, grazie al quale viene consentita la deroga, mediante la contrattazione più vicina all’impresa, dalle normative uniformi, di legge e di contratto, con l’obiettivo di valorizzare, invece, le effettive differenze, assumendosi anche la responsabilità di promuovere flessibilità organizzative e produttive.

 

L’articolo 8 permette pure di negoziare, tra le altre materie, anche gli effetti e le conseguenze del recesso dal rapporto del lavoro, fatta eccezione per il licenziamento discriminatorio e per quello in occasione di matrimonio e in altri casi come la tutela della maternità (che mantenevano il diritto alla reintegra). Ma ora questo problema è superato in seguito all’introduzione del contratto a tutele crescenti (d.lgs. n. 23/2015) ed è quindi venuto a mancare uno dei “bau bau” che, a suo tempo, spaventarono i sindacati i quali trovarono facilmente l’acquiescenza rinunciataria della Confindustria di Emma Marcegaglia.

 

 

Giuliano Cazzola

Membro del Comitato scientifico ADAPT

Docente di Diritto del lavoro UniECampus

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