Politically (in)correct – Sull’erogazione del TFR/TFS la Consulta non intende creare problemi di finanza pubblica

Bollettino ADAPT 26 giugno 2023, n. 24

 

Con la sentenza n. 130 depositata venerdì scorso, la Consulta – interpellata dal sindacato Confsal-Unsa – ha stabilito che il principio costituzionale della giusta retribuzione (art.36 Cost.), si applica anche al trattamento di fine rapporto (TFR) o di fine servizio (TFS); pertanto,  essendo considerate tali prestazioni una componente della giusta retribuzione del lavoratore subordinato che viene accantonata puntualmente per essere erogata alla cessazione del rapporto di lavoro o di servizio, diventa sostanziale non solo l’ammontare corrisposto al dipendente, ma anche la tempestività della sua erogazione, perché rivolta a sopperire alle peculiari esigenze del dipendente in quel momento particolare della sua vita. La sentenza ha ringalluzzito le tante bande che si appostano sul tragitto delle diligenze per prenderle d’assalto al loro passaggio.

 

Anche i sindacati confederali si sono messi in fila per rivendicare, grazie alla sentenza n. 130, “un risarcimento per le migliaia di lavoratrici e lavoratori pubblici che ancora, a distanza variabile dai 2 ai 7 anni, stanno aspettando di ricevere il loro salario differito”. Così in una nota Domenico Proietti, segretario generale della Uil-Fpl, Giuseppe D’Aprile, segretario generale della Uil Scuola-Rua, e Sandro Colombi, segretario generale Uil-Pa: «La Uil-Fpl, la Uil Scuola-Rua e la Uil-Pa hanno chiesto al Parlamento e al Governo la rimozione immediata di questo vulnus, rilevato anche dalla Corte Costituzionale, che rappresenta una grave penalizzazione per i dipendenti pubblici e un’appropriazione indebita da parte dello Stato». Subito le agenzie si sono affrettate a sparare delle cifre riguardanti i costi da sostenere da parte dell’INPS (il TFS infatti è una prestazione di carattere previdenziale, mentre il TFR ha natura retributiva). Il calcolo è stato effettuato prendendo come parametri di riferimento l’importo medio del TFS e il numero di coloro che nei prossimi anni andranno in quiescenza. Si tenga conto che nel pubblico impiego la cessazione dal servizio, al raggiungimento dei requisiti per il trattamento di vecchiaia, non è un atto volontario del dipendente, ma viene disposta in modo obbligatorio dall’amministrazione. Pertanto il numero dei possibili utenti è pressoché prestabilito.

 

Secondo quanto previsto dalla normativa in vigore (più volte modificata negli ultimi 10 anni, i termini per l’erogazione del TFS ai dipendenti pubblici variano a seconda delle cause di cessazione del rapporto di lavoro.

Nel dettaglio la normativa vigente prevede il pagamento del TFS entro 105 giorni in caso di cessazione dal servizio per inabilità o per decesso del lavoratore.

Nel caso di cessazione del rapporto di lavoro, avvenuta per raggiungimento dei limiti di età o di servizio, il pagamento va effettuato non prima di 12 mesi dalla data di cessazione dal servizio. In tutti gli altri casi di cessazione del rapporto di lavoro, come per esempio le dimissioni e il licenziamento, in base a quanto previsto dalla normativa, il pagamento della prestazione spettante sarà effettuato non prima di 24 mesi.

Sulla base di queste tempistiche, l’erogazione della prestazione può quindi avvenire:

– in un’unica soluzione, se l’ammontare complessivo lordo è pari o inferiore a 50.000 euro;

– in due rate annuali, se l’ammontare complessivo lordo è superiore a 50.000 euro e inferiore a 100.000 euro;

– in tre rate annuali, se l’ammontare complessivo lordo è pari o superiore a 100.000 euro.

In caso di pagamento rateale, la seconda e la terza tranche saranno pagate rispettivamente dopo 12 e 24 mesi dalla data di decorrenza del diritto al pagamento della prima.

È utile ricordare che i tempi di liquidazione si allungano per coloro i quali anticipano il pensionamento rispetto ai requisiti anagrafici o contributivi previsti dalla legge Fornero.

 

Ad esempio, per chi accede alla pensione Quota 100 (62 anni d’età e 38 anni di contributi entro il 31 dicembre 2021), Quota 102 (64 anni d’età e 38 di contributi entro il 31/12/2022) e Quota 103 (62 anni d’età e 41 di contributi entro il 31/12/2023), i termini per l’erogazione decorrono dalla data di raggiungimento del diritto teorico più favorevole e non dalla data di effettivo collocamento a risposo.

L’articolo 23 del decreto-legge 28 gennaio 2019, n. 4, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 marzo 2019, n. 26, ha previsto la possibilità di richiedere alle banche che aderiscono all’Accordo Quadro sottoscritto tra ABI e i Ministeri interessati, l’anticipo di una quota di TFS/TFR (entro i 45.000 euro) per i dipendenti pubblici che cessano o sono cessati dal servizio per collocamento a riposo, avendo raggiunto i requisiti ordinari per l’accesso alla pensione anticipata o di vecchiaia (regole Fornero) oppure avendo optato per l’accesso a pensione con la cosiddetta Quota 100/102/103.

 

I giudici costituzionali che avevano già segnato con la sentenza n. 159 del 2019, la problematicità delle normative, adottate in un momento di crisi della finanza pubblico poi lasciate in vigore per un tempo indefinito, hanno ritenuto che «non sarebbe tollerabile l’eccessivo protrarsi dell’inerzia legislativa». Ma per fortuna i giudici delle leggi non sono degli sfasciacarrozze. Tutte le volte che una sentenza avrebbe potuto determinare un cumulo insostenibile di oneri per il bilancio dello Stato, il suo contenuto consisteva in un invito al legislatore a stabilire delle regole più eque, tanto che la sentenza n. 130 ha riconosciuto che nel provvedere alla rateizzazione la leggo aveva tenuto conto delle esigenze di tutela dei ceti meno abbienti. Anche in questo caso, dunque, spetta al legislatore, avuto riguardo al rilevante impatto finanziario che il superamento del differimento comporta, individuare i mezzi e le modalità di attuazione di un intervento riformatore che tenga conto anche degli impegni assunti nell’ambito della precedente programmazione economico-finanziaria. Quest’ultima sentenza ricorda un altro caso che avrebbe potuto avere degli effetti finanziari insostenibili, ma che si risolse con un accomodamento della disciplina previgente.

 

Nella manovra “Salva Italia” di fine 2011 venne bloccata (comma 25) la perequazione per le pensioni d’importo superiore a 3 volte il minimo per gli anni 2012 e 2013 (1.405,05 euro lordi mensili nel 2012 e 1.443 nel 2013). La Corte Costituzionale (con la sentenza n. 30 del 2015, di contenuto parecchio discutibile), non aveva cassato nella sua interezza la norma (se lo avesse fatto avrebbe contraddetto tutta la giurisprudenza in materia), ma i criteri e modalità di esecuzione. Nel dispositivo, infatti, la Corte aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 24, comma 25, del decreto-legge n. 201/201 nella parte in cui prevede che «In considerazione della contingente situazione finanziaria, la rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici è riconosciuta, per gli anni 2012 e 2013, esclusivamente ai trattamenti pensionistici di importo complessivo fino a tre volte il trattamento minimo INPS, nella misura del cento per cento». In sostanza, benché legittima, la misura, secondo la Consulta, agiva – in modo permanente – su prestazioni medio-basse, tanto da mettere in discussione la loro adeguatezza (nonché i criteri della proporzionalità e della ragionevolezza). In tale situazione, il Governo reagì con un provvedimento d’urgenza e rimodulò il taglio della rivalutazione automatica: col decreto n. 65, infatti, furono inclusi nell’esonero altri 2 milioni di pensionati, così, in tutto, i “salvati’’ salirono a 12 milioni su 16 milioni di soggetti interessati e il livello di salvaguardia (sia pure con copertura parziale) fu portato da tre a sei volte il minimo, con un onere di 2,8 miliardi. A questo punto, avendo sollevato la questione della adeguatezza e della ragionevolezza, la Corte non poteva trasformarsi in un biscazziere che rilancia sulla posta andando nuovamente oltre il suo ruolo istituzionale e pronunciandosi su di una problematica squisitamente politica come quella del contenuto dei diritti sociali, il cui riconoscimento ai cittadini e ai lavoratori, non poteva prescindere, infatti, dalle condizioni economiche di un Paese e da quanto esse possono garantire in una determinata fase storica. Così, interpellata sulla legittimità della revisione, la Consulta non sollevò obiezioni.

 

Anche nel riesame delle modalità di liquidazione del TFR/TFS, al governo sono riconosciuti dei margini che consentano il contenimento degli oneri. Innanzi tutto un intervento sui parametri con una rateizzazione più limitata nel tempo e un ampliamento della platea degli aventi diritto al trattamento al momento della quiescenza. In proposito si potrebbe interagire con le regole del pensionamento, distinguendo (come è già accaduto) tra chi va in pensione anticipata o di vecchiaia, prevedendo che i primi percepiranno in tutto o in parte il TFS al momento in cui raggiungeranno, nel caso che usufruiscano di una forma di anticipo, i requisiti anagrafici del trattamento di quiescenza, magari prevedendo un meccanismo di rivalutazione parziale a compenso dell’inflazione. Una norma siffatta potrebbe scoraggiare il pensionamento anticipato – che è largamente maggioritario – nel pubblico impiego. A questo punto però la valutazione assumerebbe valenza politica: ovvero adeguarsi agli indirizzi della politica del personale delle amministrazioni pubbliche.

 

Nel giro di un ventennio se ne sono visti un po’ di tutti i colori. In una certa fase i governi hanno compiuto, per diversi motivi, una politica del personale conservativa, nel senso di ritardare il più possibile la cessazione dal servizio. In altri casi si è fatta una politica di senso opposto, autorizzando le amministrazioni a procedere al pensionamento non appena il dipendente avesse maturato un diritto al pensionamento a prescindere dall’età. In seguito, quando si è cominciato a prendere di mira la riforma Fornero e ad introdurre il regime delle quote, non si sono messe in conto delle conseguenze gravi (si pensi all’esodo tramite quota 100 del personale sanitario prima della pandemia che obbligò il governo a richiamare in servizio i pensionati). Poi c’è il paradosso del mondo della scuola, dove spariscono gli alunni e gli studenti a centinaia di migliaia, ma gli insegnati sono sempre più o meno lo stesso numero. Alle elementari, mio figlio aveva una maestra (come me); mio nipote ne ha due. E ogni anno si procede a decine di migliaia di stabilizzazioni. Si dice che il personale della PA sia troppo anziano, abbia delle lacune di scolarizzazione, sia impreparato alla sfida della digitalizzazione, troppo impregnato di cultura giuridica, prigioniero di una mentalità burocratica; e perciò sarebbe necessario un ampio rinnovamento. Ammesso e non concesso che ciò sia possibile nella realtà dei fatti (i tentativi compiuti per assumere personale qualificato anche per la gestione del PNRR) non sono stati molto lusinghieri) occorrerà promuovere delle politiche coerenti in materia previdenziale. Ovvero anche per quanto riguarda l’erogazione del TFR/TFS.

 

Giuliano Cazzola

Membro del Comitato scientifico ADAPT

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