Politically (in)correct – Pensioni: il futuro si costruisce adesso. O mai più

Bollettino ADAPT 6 marzo 2023, n. 9

 

Il confronto tra il governo e i sindacati sulle pensioni sembra essersi perso nella nebbia. Ogni tanto il tema compare alla ribalta – i quotidiani devono pur uscire tutti i giorni – con l’attribuzione di una soluzione allo studio del Ministro del Lavoro per qualcuno dei punti politicamente delicati per i partiti che compongono la maggioranza. Così è necessario rendere un omaggio periodico a quota 41, di cui non è consentito mettere in dubbio il ruolo di pilastro del sistema riformato dopo aver messo definitivamente al bando la riforma Fornero. Anzi questa esigenza sembra tanto condivisa e pacifica nel dibattito da non consentire opinioni diverse. Peraltro la fatwa emessa contro l’ex ministro e il governo di cui faceva parte si sta estendendo anche alla legge n. 92/2012 sul mercato del lavoro, in particolare per quanto riguarda l’artico 18 novellato.

 

Il ministro Calderone, poi, deve cautelarsi un po’ anche nei confronti dei sindacati pronunciando di tanto in tanto le parole di “flessibilità in uscita” essendo consapevole del fatto che, per i suoi interlocutori, la definizione ha – in codice – il significato di consentire il pensionamento il più presto possibile. In sostanza, il rischio che corre il sistema pensionistico è quello di tutelare le generazioni   che andranno in quiescenza nei prossimi anni – secondo aspettative compatibili con le condizioni acquisite durante la vita attiva e cioè: a lavoro standard pensione standard. Infatti, il sistema misto è destinato ad essere applicato fino al 2035 (anche se in conseguenza della riforma Fornero la quota contributiva è in crescita man mano che ci si allontana dal 1° gennaio 2012. Sarebbe il caso, però, di riflettere su quanto emerge dalla sottostante tabella (Fonte: Eurostat; The 2021 Ageing Report) che è pubblicata nel saggio edito da Solferino Il lavoro di oggi, la pensione di domani. Perché il futuro del Paese passa dall’Inps consistente in una lunga ed approfondita conversazione sui temi del dibattito previdenziale tra il presidente dell’Istituto, Pasquale Tridico e il giornalista del Corriere della sera, Enrico Marro. La tabella mette a confronto – nei Paesi dell’Unione – i tassi di sostituzione (ovvero il rapporto tra la pensione alla decorrenza e la retribuzione percepita alla fine della vita attiva) tra il 2019 e il 2070.

 

Tasso di sostituzione 2019 (val. %)

Tasso di sostituzione 2070 (val. %)

Variazione 2019-2070 (val. %)

Stati UE

BELGIO

35,1

33,2

-1,9

BULGARIA

36,2

29,5

-6,7

REP CECA

45,1

42,9

-2,2

DANIMARCA

35,6

28

-7,6

GERMANIA

39,8

37,2

-2,6

ESTONIA

39,8

25,8

-13,9

IRLANDA

36,7

36

-0,7

GRECIA

69

56,2

-12,8

SPAGNA

77

41,3

-35,7

FRANCIA

54,4

34,7

-19,7

CROAZIA

32,5

22,8

-9,7

ITALIA

66,9

51,5

-15,4

CIPRO

35,7

44,4

8,7

LETTONIA

54,8

20

-34,7

LITUANIA

31,7

21,2

-10,4

LUSSEMBURGO

67,1

60,1

-7

UNGHERIA

44,8

48,2

3,3

MALTA

48,4

57,1

8,7

PAESI BASSI

30,9

29,2

-1,6

AUSTRIA

55,4

52,1

-3,3

POLONIA

54,1

25,1

-28,9

PORTOGALLO

74

41,4

-32,7

ROMANIA

27,1

27,6

0,5

SLOVENIA

33,2

37,5

4,3

SLOVACCHIA

41,6

43,2

1,6

FINLANDIA

45,9

37,3

-8,5

SVEZIA

34,2

29,9

-4,4

Fonte: Eurostat; The 2021 Ageing Report, European Commission; Pension Adequacy report Social Protection Committee and European Commission; Mutual Information System on Social Protection.

 

Balza subito agli occhi che sono i Paesi con maggiori problemi di finanza pubblica (tra cui l’Italia) a garantire un tasso di sostituzione tra i più elevati, non solo all’inizio del periodo considerato (nel 2019 il 66,9%) ma anche alla fine (51,5% nel 2070) con una riduzione del 15,4%. Un’attenta osservazione mette in evidenza che in altri Paesi sono previste diminuzioni più sostenute e che in Italia anche nel 2070 (quando cominceranno a porsi il problema del pensionamento i nati in anni recenti) il tasso di sostituzione non è certo tra I peggiori. Non sappiamo quali sono i criteri in base ai quali l’Eurostat ha definite gli andamenti del tasso di sostituzione negli altri Paesi.

 

Per quanto riguarda il nostro il ruolo fondamentale è svolto dall’applicazione integrale del calcolo contributivo al posto di quello misto (ovviamente si tratta di dati medi, perchè il calcolo contributivo non è sempre e di per sè peggiorativo). Quali sono le indicazioni da desumere? É sufficiente – come propongono i sindacati – l’istituzione di una pensione di garanzia a tutelare i lavoratori? Con una siffatta pensione si potrà sopperire ad un limite della riforma Dini del 1995 che non aveva previsto uno strumento di solidarietà infragenerazionale, come l’integrazione al minimo nel modello retributive. Va data una risposta sistematica, mettendo in sinergia il pubblico e il privato, la ripartizione con la capitalizzazione, potenziando il ricorso alla previdenza complementare, soprattutto da parte dei lavoratori più giovani. Una scelta in questa direzione impone dei ripensamenti rispetto al modello previsto dalla riforma Dini che aveva come riferimento il lavoro standard sia dipendente che autonomo e come modalità attuattiva la contrattazione collettiva.

 

La diffusione del c.d. welfare aziendale può fornire un ulteriore occasione di sviluppo della previdenza privata; ma si rimane sempre in contesti minoritari nel contesto di un mercato del lavoro come quello italiano, contraddistinto dalla prevalenza di unità produttive di modeste dimensioni. Nel saggio, Enrico Marro indica una prospettiva che sarebbe in grado di mettere tutto il mondo del lavoro in grado di provvedere – secondo meccanismi uniformi di finanziamento qualunque sia la forma del rapporto di Lavoro – ad un più equilibrato e diffuso sistema di previdenza a capitalizzazione. Il nostro sistema resterà relativamente generoso anche in virtù dell’aliquota contributiva alta, soprattutto per i lavoratori dipendenti (33% della retribuzione lorda). Aliquota che in passato ha motivato le proposte di opting out che sono state avanzate, per esempio da Elsa Fornero: dare cioè la possibilità, a chi vuole, di ridurre di alcuni punti la contribuzione all’Inps con lo scopo di finanziare la previdenza complementare a capitalizzazione, oppure, aggiungo io, per aumentare il netto in busta paga.

 

Da una parte prosegue Marro i numeri della tabella precedente sembrerebbero dimostrare che affrontare il tema di un riallineamento delle nostre aliquote contributive verso il basso non può essere un tabù: se molti altri Paesi convivono con tassi di copertura molto inferiori al nostro, vuol dire che si può fare. Dall’altra, però, risulta (ecco il diavolo che ci infila la coda, ndr) già difficile immaginare una pensione mediamente pari alla metà della retribuzione e un taglio dei contributi farebbe scendere ancora di più il tasso di sostituzione’’

 

Giuliano Cazzola

Membro del Comitato scientifico ADAPT

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