Politically (in)correct – No vax in Tribunale

Bollettino ADAPT 23 maggio 2022, n. 20

 

La batracomiomachia del green pass continua ad arrivare nelle aule dei tribunali e a produrre una giurisprudenza controversa. Se la giustizia amministrativa sembra più propensa a respingere i ricorsi dei dipendenti pubblici sospesi dal servizio per il loro rifiuto di esibire il green pass o la certificazione sostitutiva prevista dalla legge, sul versante della giustizia ordinaria del lavoro l’impianto legislativo per la prevenzione del contagio da covid-19 comincia a scricchiolare, quando i giudici vengono chiamati a pronunciarsi su talune situazioni concrete.

 

Se nella giornata di venerdì 11 marzo 2022, il Tar del Lazio, sottolineando “la piena legittimità dei provvedimenti di sospensione”, ha respinto  il ricorso presentato da 127 dipendenti pubblici contro la sospensione dal lavoro e dallo stipendio per non aver rispettato l’obbligo vaccinale, il fronte no vax ha potuto rivendicare – definendola addirittura storica – una sentenza del Tribunale di Firenze, sezione Lavoro (n. 155/22) pronunciata il 3 marzo e pubblicata il giorno seguente, nella quale il giudice  ha condannato un’azienda al risarcimento per aver richiesto, a giudizio del Tribunale in maniera illegittima, il green pass ad un’addetta della piscina presso il club di Firenze Rovezzano. Prendiamo la descrizione dei fatti direttamente dal sito Byoblu che ha condotto una campagna ostinata, sul piano della comunicazione e della stessa editoria, contro le misure adottate dal governo in materia di vaccinazione.

 

I fatti risalgono ad agosto 2021, quando non era ancora in vigore l’obbligo di esibire il passaporto vaccinale per accedere al proprio posto di lavoro. Nonostante non vi fosse alcuna indicazione per farlo, la società ha segnalato la mancata esibizione del green pass da parte dell’impiegata nei giorni 7 e 9 agosto, sospendendo in seguito l’addetta alle piscine. L’azienda aveva poi inviato una comunicazione interna ai propri dipendenti, richiedendo a lavoratori e collaboratori l’esibizione del green pass per accedere alle strutture. La questione centrale della controversia ha riguardato il seguente aspetto: se, in assenza di un obbligo di legge, il possesso di green pass in corso di validità potesse essere richiesto dal datore di lavoro al singolo lavoratore, quale misura necessaria al fine di preservare la salubrità del luogo di lavoro. In sostanza se fosse applicabile comunque l’articolo 2087 c.c.  Il giudice, in proposito,  ha rimandato all’art. 29-bis del d.l. n. 23/2020, convertito nella legge n. 40/2020 che fa a propria volta riferimento al Protocollo Governo-parti sociali sottoscritto il 24 aprile 2020, il quale stabilisce  che “ai fini della tutela contro il rischio di contagio da Covid-19, i datori di lavoro pubblici e privati adempiono all’obbligo di cui all’articolo 2087 c.c. mediante l’applicazione delle prescrizioni contenute nel protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del Covid-19 negli ambienti di lavoro e successive modificazioni e integrazioni”. Ricordiamo che questa disposizione era rivolta a tutelare le aziende proprio dal rischio di essere accusate della mancata applicazione dell’articolo 2087 c.c. che costituisce, come è noto, una “norma di chiusura” in materia di infortuni sul lavoro; pertanto la puntualizzazione era necessaria proprio perché il contagio da Covid-19 “in occasione di lavoro” era stato equiparato all’infortunio, con le conseguenti responsabilità civili e penali a carico del datore di lavoro. Le prescrizioni stabilite nel Protocollo dell’aprile 2020, poi recepite dal decreto consentivano al datore di lavoro: a) il controllo preventivo della temperatura corporea, con allontanamento dei soggetti con temperatura superiore ai 37,5 gradi; b) la preclusione dell’accesso a chi, nei 14 giorni precedenti, avesse avuto contatti con soggetti risultati positivi al Covid-19 o provenisse da zone a rischio stando alle indicazioni OMS; c) la preclusione ai lavoratori già positivi e sprovvisti di preventiva comunicazione di avvenuta negativizzazione.

 

“Ne consegue – è questo il passo saliente della pronuncia fiorentina – che (secondo la normativa vigente all’epoca dei fatti) il possesso di tampone negativo poteva essere richiesto al lavoratore in adempimento degli obblighi di cui all’art. 2087 c.c. gravanti sul datore di lavoro solo in presenza di un provvedimento dell’autorità sanitaria o di una motivata richiesta del medico competente, fattispecie che pacificamente esulano dal caso in esame del giudice”. “Ciò vale a rendere illegittimo il rifiuto della prestazione della ricorrente operato dal datore di lavoro. La illegittimità è comunque cessata – prosegue la sentenza – il 15 ottobre del 2021, data nella quale l’obbligo di possesso di green pass in capo a tutti i lavoratori è stato imposto dalla legge, rendendo doveroso il rifiuto datoriale”. E quindi la medesima linea di condotta dell’impresa, sanzionata per il periodo precedente, è stata giudicata legittima per quello successivo.

 

Ad avviso di chi scrive il giudice fiorentino non ha tenuto conto di un elemento di fatto importante: l’indisponibilità del vaccino al momento in cui il Protocollo venne sottoscritto e recepito dalla legge. La scoperta dei vaccini e l’avvio della somministrazione potevano essere ricondotti tra le misure che, nell’esercizio dell’impresa, l’imprenditore è tenuto ad adottare perché secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro. L’applicazione dell’articolo n. 2087 c.c. è sempre operante, sia pure nella indeterminatezza delle misure da adottare. Non si comprende, pertanto, perché un datore possa essere chiamato a rispondere, in sede civile e penale, di non aver introdotto nel processo produttivo una macchina in grado di garantire una maggiore sicurezza per gli operatori (evitando in questo modo un grave infortunio), mentre debba attendere un provvedimento specifico nel caso della scoperta e della disponibilità di un nuovo farmaco che assicuri una più adeguata tutela nei confronti del contagio.
 
Nel recente passato nella giurisprudenza era emerso un orientamento diverso da quello del Tribunale di Firenze. Dopo quelli di Udine e Belluno, il Tribunale di Modena con ordinanza n. 2467 del 23 luglio 2021, aveva riconosciuto la piena legittimità del provvedimento di sospensione dal lavoro senza retribuzione adottato da un datore di lavoro operante in una RSA ove due addetti con mansioni sanitarie avevano rifiutato di vaccinarsi contro il Covid-19. Il Tribunale aveva osservato che, ai sensi del D.L.vo n. 81/2008 (il codice sulla sicurezza del lavoro), l’imprenditore è garante della salute e della sicurezza sia degli altri dipendenti che dei terzi. Il rifiuto della vaccinazione se pur non può dare adito, secondo il Tribunale, a provvedimenti di natura disciplinare, poteva avere, tuttavia, delle conseguenze sul piano dell’oggettivo impedimento a svolgere determinate mansioni, soprattutto se a contatto con altre persone, anch’esse dipendenti o terzi. Verificato, nella fattispecie, tale impedimento, il Tribunale di Modena aveva ritenuto corretto il comportamento del datore che aveva proceduto a sospendere i due dipendenti senza la corresponsione di alcuna retribuzione. Il cambiamento di mansione o la prestazione da remoto potevano essere soluzioni praticabili, purché ve ne fossero le condizioni.  È bene notare che questa ordinanza si riferisce ad un fatto avvenuto prima di quello su cui si è pronunciato il giudice di Firenze. Ne deriva che il Tribunale di Modena riteneva la normativa già vigente (ex dlgs n.81/2008 e articolo 2087 c.c.) adeguata a sanzionare la mancata vaccinazione.

 

Giuliano Cazzola

Membro del Comitato scientifico ADAPT

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