Politically (in)correct – Lo strano caso di un “pendolarismo” scolastico salito all’onore delle cronache

Bollettino ADAPT 23 gennaio 2023, n. 3

 

Negli ultimi giorni le cronache si sono occupate con un accanimento mediatico (in)degno delle avventure del principe Harry, del caso di una giovane donna, appartenente al personale ATA con la qualifica di operatrice scolastica (la figura professionale che un tempo era definita “bidella”), che viaggia tutti giorni da Napoli a Milano (con relativo ritorno) per andare al lavoro in un liceo artistico del capoluogo lombardo (partenza alle 5:09 del mattino, rientro col treno  delle 18:20), dove è assunta stabilmente. L’interessata ha spiegato i motivi di questa odissea del XXI secolo: ha calcolato di spendere meno passando gran parte della giornata sui treni (sia pure dell’Alta velocità) che affittando una stanza a Milano. Alcuni media si sono messi persino a verificare se i “conti” della giovane fossero fondati, incaricando dei redattori di approfondire i costi delle tariffe ferroviarie e delle possibilità di ottenere degli sconti nell’acquisto dei biglietti. Così sono stati pubblicati articoli che navigavano negli orari ferroviari, nelle offerte di pacchetti di biglietti e nei vantaggi connessi a prenotazioni effettuate in anticipo.

 

Può sembrare singolare che il coté economico di questo “pendolarismo” abbia assunto la prevalenza rispetto al logorio di un viaggio quotidiano di otto ore (magari si potrebbe scoprire che esistono forme di pendolarismo “locale” che richiedono un tempo più o meno analogo tra località più vicine, ma peggio servite dal trasporto pubblico o privato). Ma perché questo caso ha suscitato tanta curiosità? I commenti sono stati di diverso tenore. Alcuni – in realtà una minoranza – ha voluto presentare il prestarsi ad un tragitto tanto lungo come un esempio di dedizione al lavoro (per di più fisso) quando tanti lo accettano solo se ubicato nei pressi di casa propria, a dimostrazione che il nuovo corso annunciato da Giorgia Meloni (chi non lavora non sta a casa sul divano ad incassare il reddito di cittadinanza) non è una utopia. L’opinione prevalente, però, si iscrive nella mistica del lavoro oppresso, dimenticato, mal retribuito che domina la narrazione politicamente corretta. Soprattutto vi è una forte sottolineatura tra l’importo (modesto) della retribuzione e il sovraccarico di fatica che la giovane donne si sobbarca.

 

In sostanza, la morale di questa storia è la seguente: pensate a che cosa deve fare una persona per guadagnare così poco! Per cui, se fosse stata invitata ad un talk show a spiegare le ragioni di un eventuale rifiuto di quel posto (ancorché fisso) continuando a percepire (ammesso che lo percepisse) il RdC avrebbe trovato la solidarietà dei conduttori e degli altri ospiti, che invece restano disorientati per la disponibilità dimostrata ad accettare quell’impiego. Il fatto è che il caso dell’operatrice scolastica di cui si parla, non è per nulla eccezionale, tranne che (se e fin che dura) per l’eccessivo pendolarismo. Ma nella scuola è normale che vi siano insegnanti (o personale amministrativo), provenienti da una località del Mezzogiorno, a cui è assegnata una cattedra in una città settentrionale. Normalmente la persona va a prendere servizio in quel posto in cui rimarrà fino alla pensione, per il tempo minimo indispensabile ad entrare di ruolo, trascorso il quale troverà ogni possibile scappatoia (malattia, parente da assistere in base alla l. n. 104, figli minori e quant’altro) per recarsi il meno possibile dove dovrebbe in attesa di ottenere il trasferimento più vicino a casa propria.

 

La situazione è comprensibile: nella scuola è assolutamente prevalente il personale femminile. Un’ insegnante entra di ruolo ad un’età in cui spesso ha già una famiglia con figli. Quando va bene questa persona si sobbarca un periodo di sacrificio, avvalendosi però di tutte le possibilità di renderlo meno lungo e pesante. Ovviamente ciò va a scapito della continuità dell’insegnamento nelle classi in cui l’insegnante prende servizio. Ai tempi della legge sulla “Buona scuola” che consentì un numero impressionante di assunzioni stabili, gli insegnanti si dicevano vittime di una deportazione, tanto che i loro sindacati ottennero dall’allora ministro Valeria Fedeli una sostanziale riduzione del periodo di tempo minimo richiesto dalla legge per rimanere nel posto assegnato. Quale è il motivo di questo traffico? Lo spiega con una sintesi efficace un brano di un articolo di un importante quotidiano nazionale: “Nel Mezzogiorno i posti vacanti non sono sufficienti per garantire agli aspiranti docenti un facile e veloce inserimento e, soprattutto, l’affrancamento dalla precarietà. Basta dare un’occhiata appena superficiale al numero di posti ordinari e straordinari messi a concorso al Sud e al Nord, nelle due aree della Penisola, per rendersi conto del divario enorme esistente in termini di percentuale, a tutto vantaggio – si fa per dire – delle regioni settentrionali. È vero, i posti vacanti al Sud sono drasticamente inferiori rispetto a quelli del Nord”.

 

In sostanza, per tanti motivi, le cattedre sono al Nord, gli insegnanti al Sud. Visto che non si possono trasferire gli studenti è la Montagna che deve recarsi da Maometto. Il fatto è che le assenze dei titolari di cattedra, per i motivi che abbiamo ricordato, costringono i dirigenti scolastici nelle regioni del Nord a ricorrere alle supplenze, ai danni della continuità didattica; ciò si trasforma in una fabbrica di nuovo precariato che, prima o poi, chiede di entrare nei ruoli. Ci sono poi altri problemi. Tra gli ambiti ai quali – secondo l’OCSE, viene assegnata maggiore priorità, invece, c’è la riduzione della dimensione delle classi attraverso il reclutamento di maggiore personale. In realtà in Italia il numero di docenti in rapporto agli studenti risulta ad un massimo storico e più elevato che negli altri grandi paesi avanzati. Infatti, nel 2018 le classi delle scuole primarie italiane accoglievano in media 19 studenti a fronte di una media OCSE di 21 (Fig. 4), guardando le scuole primarie di primo livello la media italiana sale a 21 studenti, mentre la media OCSE è di 23 studenti (Fig. 5). Inoltre, i principali paesi europei (Germania, Spagna, Francia) hanno delle classi più grandi rispetto a quelle italiane (rispettivamente con 21, 22 e 23 studenti nelle scuole primarie e 24, 25 e 26 studenti nelle scuole secondarie di primo grado.

 

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Il rapporto fra Stato e insegnanti in Italia – ha scritto Andrea Gavosto della Fondazione Agnelli – si fonda su di un «patto scellerato»: poco ti do, poco ti chiedo. Come i dati OCSE confermano, i nostri insegnanti ricevono una retribuzione inferiore a molti colleghi all’estero (tedeschi, olandesi e alcuni paesi scandinavi; non però francesi, inglesi e giapponesi); una differenza che però si ridimensiona, se si tiene conto delle ore di lezione svolte in classe, in Italia fra le più basse dei paesi avanzati. I docenti italiani sono particolarmente penalizzati dai meccanismi «piatti» di carriera: una progressione che è scandita solo dallo scorrere del tempo. Che si impegni o no, che faccia bene o meno il suo lavoro, solo invecchiando l’insegnante potrà migliorare la sua condizione economica. Inoltre, la formazione iniziale dei docenti è sottoposta a limitate verifiche, né in pratica sono valutati gli esiti del loro lavoro; e quel che è forse ancora più drammatico, lo Stato non fornisce i corsi e le risorse formative per aggiornare e migliorare le competenze dei docenti, durante il loro servizio.

 

Questo modello non è compatibile con l’esigenza di qualità della scuola italiana, che richiede docenti preparati e motivati. Ma i primi a non volere un cambiamento che valorizzi il ruolo e la dignità dei docenti sono proprio i sindacati della scuola, che hanno contribuito per di più al mancato decollo dell’autonomia scolastica contenuta nella legge sulla Buona Scuola. Oltre che con l’assenza di istituzioni adeguate – scrive ancora Gavosto – lo sviluppo dell’autonomia scolastica in Italia si è finora scontrato con due grandi ostacoli: uno è la cultura prevalente fra i docenti, che accetta di mal grado nozioni e prassi “aziendalistiche” e preferisce piuttosto rappresentarsi come una comunità di intellettuali dedita a ideali culturali e dotata di un forte senso deontologico; l’altro è l’assenza di meccanismi di governance moderni che rassicurino i dipendenti delle scuole rispetto a eventuali forme di arbitrio da parte della dirigenza.

 

Giuliano Cazzola

Membro del Comitato scientifico ADAPT

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