Politically (in)correct – Lo Statuto ha cinquant’anni

Bollettino ADAPT 18 maggio 2020, n. 20

 

Lo Statuto dei lavoratori varca la soglia del mezzo secolo. Purtroppo la ricorrenza avviene nell’anno della pestilenza e subisce le nuove regole imposte al vivere civile: il distanziamento personale e il divieto di assembramenti. Si parlerà, da remoto, di questa legge importantissima, che ha cambiato la storia delle relazioni industriali. E sarà sempre meglio che riunirsi in qualche Aula Magna occupando i posti non interdetti e prenotandosi in anticipo.  Tuttavia, diversamente da Antonio sul cadavere di Cesare, a noi è ancora consentito di onorare questa legge e non di procedere alla sua sepoltura (anche perché ai funerali non possono partecipare più di 15 persone).

 

In questi 50 anni lo Statuto ha conosciuto delle modifiche legislative; alcune norme di rilievo sono state sottoposte a referendum abrogativo; ha atteso invano la sua ‘’rifondazione’’ nel contesto di uno Statuto dei lavori, auspicata da tanti (anche in queste ore) ma rimasto nel novero delle ‘’speranze deluse’’.  Cominciando dalle modifiche più attempate l’attenzione si rivolge alla disciplina del collocamento, che, negli articoli 33 e 34 (Titolo V), riconosceva lo Stato come unico intermediario tra domanda e offerta di lavoro che operava secondo le graduatorie incluse in liste numeriche, mentre la chiamata nominativa era ammessa in pochi e limitati casi. Un’impostazione statalista barocca, inapplicata ed inefficiente, per fortuna travolta dalle direttive europee.

 

È toccato poi al jobs act di cambiare alcune disposizioni divenute superate nel tempo: l’articolo 4 (Impianti audiovisivi) riferito ai controlli a distanza, messo in crisi dalle moderne tecnologie; l’articolo 13 (Mansioni del lavoratore) rendendo più flessibile lo ius variandi del datore di lavoro onde consentire una maggiore mobilità del personale nell’azienda che cambia. Infine, è mutato l’articolo 18 (Reintegrazione nel posto di lavoro) in tema di disciplina dei licenziamenti ingiustificati.

 

Si potrebbe dire che tale modifica ha comportato una riedizione della guerra dei trent’anni (caratterizzata da scioperi, manifestazioni, referendum e anche da qualche sacrificio di vite innocenti). Oggi l’articolo 18, nella sua applicazione generale, è stato ampiamente novellato dalla legge n.92/2012. A latere, il dgls n.23 del 2015 ha introdotto una differente disciplina del licenziamento individuale (con alcuni riferimenti ai licenziamenti collettivi) a valere per i lavoratori dipendenti assunti dal 7 marzo di quell’anno con un contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti.

 

In questi anni le norme del lavoro a termine – non comprese nello Statuto – sono state modificate secondo un indirizzo permissivo rispetto al precedente orizzonte (legge n.1369/1960) contraddistinto da clausole particolarmente tipizzate e rigide.

 

Ad avviso di chi scrive le modifiche più destabilizzanti della legge n.300 sono state prodotte dall’ esito dei referendum abrogativi del 1995 riguardanti l’articolo 19 (Costituzione delle rappresentanze sindacali aziendali) e l’articolo 36 (contributi sindacali). Cominciando da quest’ultimo, il referendum abrogò il seguente comma: ‘’Le associazioni sindacali dei lavoratori hanno diritto di percepire, tramite ritenuta sul salario nonché sulle prestazioni erogate per conto degli enti previdenziali, i contributi sindacali che i lavoratori intendono loro versare, con modalità stabilite dai contratti collettivi di lavoro, che garantiscono la segretezza del versamento effettuato dal lavoratore a ciascuna associazione sindacale’’. Questa norma, introdotta dapprima nella contrattazione collettiva, poi recepita dallo Statuto con valore di legge, aveva consentito un vero e proprio salto di qualità delle entrate finanziarie dei sindacati, che erano divenute stabili, garantite e prive di costi amministrativi. Dopo l’abrogazione per via referendaria il sistema di raccolta dei contributi associativi è rimasto intatto nella contrattazione collettiva (peraltro mediante accordi con gli enti previdenziali, ora incorporati nell’Inps, è stato esteso anche  alle ritenute associative sulle pensioni); ma è evidente la differenza tra un obbligo derivante da una legge o da una norma privata, che può essere rimessa in discussione ad ogni rinnovo del contratto collettivo, anche se tale iniziativa da parte delle associazioni imprenditoriali sarebbe un atto contrario alle regole del fair play, ma non impossibile né vietato. Va da sé che un eventuale venir meno di questo ‘’servizio’’, peraltro gratuito che le aziende (e gli enti pubblici) forniscono ai sindacati, costituirebbe un duro colpo per le organizzazioni sindacali.

 

Le modifiche apportate all’articolo 19 tramite la medesima iniziativa referendaria rappresentano, ad avviso di chi scrive, una vera e propria destabilizzazione del sistema istituzionale previsto dallo Statuto. Riportiamo l’articolo contrassegnando il comma abrogato:

ART. 19– Costituzione delle rappresentanze sindacali aziendali.

 

Rappresentanze sindacali aziendali possono essere costituite ad iniziativa dei lavoratori in ogni unità produttiva, nell’ambito:

a) delle associazioni aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale

b) delle associazioni sindacali, non affiliate alle predette confederazioni, che siano firmatarie di contratti collettivi nazionali o provinciali di lavoro applicati nell’unità produttiva;

 

Nell’ambito di aziende con più unità produttive le rappresentanze sindacali possono istituire organi di coordinamento.

Per completare il ragionamento occorre risalire alla genesi dello Statuto e alle sue finalità di politica legislativa. E qui possiamo trovare una spiegazione del fatto che il grande giurista Gino Giugni viene comunemente riconosciuto come ‘’il padre dello Statuto’’. L’attribuzione è insolita, perché è prassi ordinaria attribuire la titolarità di una legge ai ministri o ai parlamentari che ne furono promotori e protagonisti. Nel caso dello Statuto del 1970, a mettere in moto la procedura era stato il ministro socialista Giacomo Brodolini che costituì una commissione tecnica con l’incarico di predisporre un testo nominando Gino Giugni suo presidente. Dopo la prematura scomparsa di Brodolini (nel luglio del 1969), subentrò a capo del Dicastero del Lavoro il democristiano Carlo Donat Cattin, che portò il disegno di legge in Parlamento (nel frattempo molte norme erano state anticipate nel rinnovo del contratto dei metalmeccanici del 1969) fino all’approvazione definitiva. Il nuovo ministro si avvalse della collaborazione di Giugni confermandolo nella direzione dell’ufficio legislativo del ministero.

 

Va da sé che una personalità come Giugni lasciò un segno indelebile in quella legge, seppure in un ruolo formalmente tecnico. Ma a pensarci bene in quella impostazione c’era un pensiero, si scorgeva una visione eccezionalmente innovativa per quegli anni (tanto da suscitare perplessità nella sinistra: il Pci si astenne nel voto finale): si trattava di una legge che riconosceva dei diritti fondamentali ai lavoratori, ma lo faceva attraverso il sindacato con norme definite allora ‘’promozionali’’.

C’è di più tuttavia; e sta lì l’impronta di Gino Giugni. In questo modo, attraverso la legge n.300, l’ordinamento sindacale, cresciuto e sviluppato al di fuori di quanto prevedeva l’articolo 39 Cost., acquisiva un organico profilo giuridico, assurgeva ad un vero e proprio sistema di relazioni industriali sorretto da una legge che legittimava i principi sui quali il sistema stesso si era affermato: il reciproco riconoscimento delle parti e la libertà di organizzazione. Erano queste le chiavi dell’ordinamento intersindacale che Giugni aveva intuito nel libro: ‘’Introduzione allo studio dell’autonomia collettiva’’ scritto nel 1960.

 

Con lo Statuto il ‘’diritto vivente’’ era approdato a profilo giuridico formale basato sul criterio della maggiore rappresentatività in conseguenza di una vera e propria tautologia (appartenere al club che, attraverso un reciproco riconoscimento della rappresentanza e della rappresentatività dei propri interlocutori, stipulava i contratti di lavoro) prevista nel comma abrogato dell’articolo 19.

 

Questa architettura istituzionale è stata destabilizzata dal referendum del 1995 che ha messo in crisi il presupposto su cui si basava il sistema e ha aperto la strada al moltiplicarsi dei contratti collettivi, spesso definiti ‘’pirati’’, ma applicati a livello aziendale. Da allora l’ordinamento non è stato più in grado di ritrovare un assetto altrettanto stabile, quanto quello precedente prefigurato nello Statuto.

 

Giuliano Cazzola

Membro del Comitato scientifico ADAPT

 

Politically (in)correct – Lo Statuto ha cinquant’anni