Politically (in)correct – L’ INPGI 1 sarà incorporato dall’INPS; ma la previdenza dei giornalisti è solo la punta dell’iceberg di un sistema pensionistico complessivamente a rischio di insostenibilità

Bollettino ADAPT 8 novembre 2021, n. 39
 
“La Terra non è di nostra proprietà; l’abbiamo ricevuta in prestito dai nostri figli e da quelli che verranno dopo di noi”. E’ bene ricordare questo monito nel momento in cui è in corso a Glasgow la Cop26, la conferenza dell’ONU sull’ambiente, che ha visto la partecipazione dei capi di Stato e di governo dei principali Paesi del mondo (con l’assenza significativa della Russia e della Cina) e che è già stata liquidata come un fallimento dalla Giovanna d’Arco degli ambientalisti, quella Greta Thunberg che, nonostante il suo radicalismo inconcludente e velleitario, ormai viene seguita  da centinaia di migliaia di giovani e presa sul serio (in apparenza) dai Grandi della Terra. Per uno che come me ha dedicato trent’anni di lavoro, di studio e di divulgazione alla questione cruciale delle pensioni (e più in generale della previdenza e dei temi del welfare) quel monito che ho ricordato all’inizio è assolutamente pertinente anche per i sistemi pensionistici obbligatori, soprattutto se finanziati a ripartizione.
 
Tuttavia, come dice Elsa Fornero, l’ambiente suscita passione civile (magari, penso io, un po’ sgrammaticata), mentre le pensioni suscitano solo risentimento, invidia sociale e demagogia. Ma il meccanismo è il medesimo. In sostanza, in questa materia, le generazioni decidono come devono essere i loro trattamenti e mandano da pagare il conto alle generazioni future ovvero prenotano per le loro pensioni le risorse delle generazioni che verranno. Ovviamente è stato così anche per i pensionati di oggi che – durante la vita lavorativa si sono fatti carico con i versamenti contributivi e il prelievo fiscale, dei trattamenti delle generazioni precedenti perché nel sistema della ripartizione i contribuenti di oggi pagano le pensioni in vigore, con la promessa, garantita dallo Stato, che quando verrà il loro turno saranno le generazioni dei futuri contribuenti ad onorare i diritti da loro maturati.
 
Per farla breve, diversamente da ciò che si sente raccontare nei Bar Sport della Penisola, versando i contributi durante la vita attiva non si accumula un capitale che poi si trasforma in pensione (quel che avviene – almeno in teoria – nei sistemi a capitalizzazione), ma si acquisiscono dei diritti, dei “pagherò” emessi a carico di chi verrà dopo (“a figlio vivo” anziché “a babbo morto”). Che cosa può capitare lungo una catena di sant’Antonio come questa? Che un insieme di coorti che hanno usufruito di condizioni di lavoro, di reddito e di occupazione stabili e continuative e soprattutto di un rapporto positivo tra attivi e pensioni siano portati a mantenere condizioni analoghe al momento del pensionamento, a spese di generazioni future connotate da una serie di trasformazioni intervenute nell’economie e nel lavoro. In questi giorni è emerso un caso emblematico di questa contraddizione è l’INPGI, l’istituto previdenziale dei giornalisti che è poi il solo ente – a cui sono iscritti lavoratori dipendenti – che nel 1994 adottò il regime della privatizzazione riconosciuta ai Fondi e alle Casse dei liberi professionisti.
 
Il disegno di legge di bilancio 2022, a fronte di un disavanzo ormai strutturale tra la spesa sostenuta per le pensioni in essere e le entrate, prevede il trasferimento dell’INPGI nell’INPS a partire dal 1° luglio dell’anno prossimo. Il che ha dato la stura ad una polemica – un po’ come ritorsione per le campagne più demagogiche che scandalistiche contro il c.d. privilegi di tutti meno che dei giornalisti stessi – nei confronti di una operazione che metterebbe al sicuro nella “casa comune” dei pensionati italiani. Una categoria che ha vissuto, anche in pensione, al di sopra di quanto potesse permettersi. Con l’aggravante che l’Istituto continuerebbe a sopravvivere con l’INPGI 2 ovvero con la gestione dei giornalisti non dipendenti, la sola in attivo, perché non paga ancora pensioni. Sarebbe, infatti, soltanto la gestione obbligatoria a confluire nell’INPS portandosi appresso il relativo disavanzo. Alle critiche i vertici dell’INPGI e della FNSI (che riceve un contributo dall’Istituto per il servizio reso in periferia) rispondono chiamando in causa la crisi dell’editoria e le sue conseguenze sui livelli di occupazione ed evidenziando che il “soccorso rosso” ha operato in tanti altri casi. E che, in fondo, l’INPGI, benché autonomo, era pure sempre vigilato dal Ministero del Lavoro e dalla Corte dei Conti.
 
Certo, non sarebbe male se Sergio Rizzo e Gianantonio Stella aggiungessero un capitolo “INPGI” al fortunato saggio a doppia firma “La casta”. Ma il punto cruciale è un altro: i giornalisti pensionati e quelli prossimi alla pensione appartengono a un mondo diverso da quello dei colleghi contribuenti. E’, più o meno, la grande questione della previdenza obbligatoria che emerge anche laddove ci sono grandi numeri; ma in nessun altro settore le tecnologie hanno determinato una cesura tanto netta tra chi, in un sistema a finanziamento a ripartizione, riceve la pensione e chi paga i contributi. Alcuni anni or sono, l’associazione LSDI (Libertà di stampa diritto all’informazione) in un Rapporto sul giornalismo in Italia, metteva in evidenza la crisi della professione “con la crescita intensa del lavoro autonomo sottopagato, diventato una grande sacca di precariato, come dimostra, tra l’altro, il fatto che il reddito medio dei giornalisti dipendenti è superiore di 5,4 volte a quello della <libera professione> (60mila euro lordi annui contro 11mila) mentre otto lavoratori autonomi su dieci (l’82,7%) dichiarano redditi inferiori a 10mila euro all’anno”. In sostanza, dall’inizio del XXI secolo la quota di lavoro “autonomo” è aumentata di dieci punti.
 
I giornalisti sono una delle categorie in cui è più evidente e marcata quella contraddizione giovani/anziani che tanto li appassiona nei loro articoli (dedicati ad altri settori). Mentre i trattamenti pensionistici erogati o da erogare nei prossimi anni hanno radici nelle retribuzioni della “Belle époque” del giornalismo, quelle degli attuali contribuenti si barcamenano all’interno di un mercato del lavoro sempre più destrutturato. Basti pensare che l’importo della pensione media dei giornalisti (di antico conio) è al terzo posto (67mila euro nel 2019 pari al 74% del reddito medio) nella scala del valore dopo i notai e i professori universitari. Tallonato dalle leggi di bilancio, l’INPGI ha adottato alcune misure di contenimento della spesa; ma l’obiettivo su cui puntava era quello di allargare per legge la base contributiva, inglobando i 17mila “comunicatori professionali” ora iscritti all’INPS. Non sarebbe la prima volta che siffatte operazioni vengono effettuate. E all’INPGI rimpiangono ancora che questa soluzione a cui stava lavorando il primo governo Conte con il sottosegretario Claudio Durigon, poi proseguito durante il Conte 2 dal ministro Nunzia Catalfo, non sia stato preso in considerazione dall’attuale esecutivo. In realtà si sarebbe imboccata una via senza uscita. Di solito, quando si sono compiute operazione siffatte non si è mai proceduto d’autorità, ma si è fatto ricorso all’opzione degli interessati, i quali certamente avrebbero espresso tutti i loro dubbi. Di solito si scende, non si sale da una nave che affonda.
 
Come abbiamo ricordato, la presidente dell’INPGI, Marina Macelloni, ha replicato con una lettera alle osservazioni critiche che Il Foglio (unico giornale che ha commentato l’operazione nel silenzio assordante della stampa e delle tv) ha pubblicato con i puntuali e documentati articoli di Luciano Capone e con una serie di interviste. In verità, la presidente avrebbe potuto usare ben altri argomenti. Immagino che abbia visto uno degli ultimi grandi film di Charlie Chaplin “Monsieur Verdoux” del 1947. Il protagonista, un bancario licenziato a seguito della crisi del 1929, per mantenere la famiglia si inventa nuove vite e corteggia ricche vedove che poi assassina per derubarle. Scoperto dopo anni viene condannato alla pena capitale. All’annuncio della sentenza si rivolge ai giudici con queste parole: “Voi condannate me perché ho ucciso alcune donne. Se avessi mandato a morire milioni di persone in guerra oggi sarei un eroe”. Certo, nella nostra vicenda non è morto nessuno. Ma al posto della presidente avrei detto: “D’accordo, noi abbiamo mandato in pensione qualche migliaia di giornalisti con regole molto generose e abbiamo potuto contare sull’omertà dei mezzi di informazione che anche adesso girano al largo di questi argomenti. Ma lo sapete che in Italia vi sono 6,5 milioni di pensionati di anzianità a fronte di 4,2 milioni di pensionati di vecchiaia? Che il costo dell’anticipo è pari a 1,4 punti di Pil, mentre gli altri Paesi se la cavano con percentuali da prefisso telefonico? E che cosa rivendicano – di sostanzialmente diverso dalla FNSI che ci ha sempre retto il sacco – le vostre confederazioni sindacali quando propongono di andare in pensione con 41 anni di anzianità o a partire da 62 anni di età e vent’anni di contributi?”. Magari a una giornalista si addice una metafora: “Noi siamo solo la punta dell’iceberg. Loro rappresentano la parte sommersa”.

 

FONDO PENSIONI LAVORATORI DIPENDENTI al netto delle contabilità separate
Età media alla decorrenza delle pensioni liquidate per categoria, anno di decorrenza e sesso
Rilevazione al 02/10/2021
(età in anni compiuti)
Sesso Vecchiaia Anticipate Invalidità Superstiti Totale
(1)
Maschi 66,9 61,6 54,2 76,9 64,2
Femmine 67,1 61,0 53,2 74,7 68,9
Totale 67,0 61,4 53,8 75,2 66,8
di cui: Decorrenti gennaio – settembre 2020
Maschi 66,9 61,6 54,2 76,8 64,3
Femmine 67,1 61,0 53,1 74,7 68,9
Totale 67,0 61,4 53,8 75,1 66,8
Decorrenti gennaio – settembre 2021
Maschi 67,0 61,5 54,4 77,7 64,3
Femmine 67,1 60,9 53,3 74,7 68,6
Totale 67,1 61,3 54,0 75,2 66,7
(1) Compresi i prepensionamenti
TOTALE GESTIONI
Distribuzione delle pensioni per anno di decorrenza, categoria e gestione – FEMMINE
Rilevazione al 02/10/2021

Giuliano Cazzola

Membro del Comitato scientifico ADAPT
 

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