Politically (in)correct – Il cuneo fiscale e contributivo non si taglia come un salame

Bollettino ADAPT 1 luglio 2019, n. 25

 

“Il salario minimo legale non è la strada giusta per aumentare le retribuzioni dei lavoratori, così come non lo è quella della Flat Tax: sarebbe molto meglio che, in un disegno organico di riforma tributaria, il Governo imboccasse la strada, suggerita dalla Confindustria, di un robusto taglio del cuneo fiscale destinando il 100% delle risorse liberate ai lavoratori”. A parlare così, in una recente intervista, è stato Maurizio Stirpe, vicepresidente della Confindustria per i rapporti sindacali, il quale ha bocciato le principali iniziative del “secondo tempo” dell’azione del governo giallo-verde, il quale – piuttosto che ad un organo collegiale – somiglia sempre più ad un condominio con due proprietari ed un amministratore.

 

A Stirpe ha replicato (in una lunga conversazione con il direttore del Foglio, Claudio Cerasa) Maurizio Landini. Commentando l’esperienza del reddito di cittadinanza, il leader della Cgil ha affermato che il lavoro non si crea attraverso i centri per l’impiego, ma “favorendo le condizioni perché le imprese possano assumere le persone”.  Per Landini si dovrebbe prioritariamente realizzare “un grande piano di investimenti pubblici”. E ha aggiunto – la novità è molto importante – che a suo avviso è stato un errore impostare una manovra tutta sul reddito di cittadinanza e quota 100. Si è trattato di “una manovra recessiva anche perché si è occupata più di passato che di futuro”.

 

In sostanza, secondo due protagonisti non solo delle relazioni industriali, ma delle forze economiche del Paese, la flat tax non è solo onerosa ed incompatibile con un minimo di stabilità dei conti pubblici (buon ultima è arrivata la Corte dei Conti a mettere in guardia il governo contro l’intenzione di varare una misura tanto significativa ricorrendo al deficit) ma non serve a creare lavoro, perché non contribuisce a ridurne il costo complessivo e ad accorciare il delta tra esso e la retribuzione netta.

 

Certo, la flat tax potrebbe servire – a seconda dei livelli di reddito a cui fosse applicata – a ridurre il differenziale tra retribuzione lorda e netta, a favore del lavoratore, ma l’impresa non ne avrebbe alcun vantaggio in termini di costo del lavoro. Che cosa si potrebbe fare, allora? È sempre opportuno partire dai dati di fatto, nel nostro caso da un Rapporto dell’Istat sulla struttura del costo del lavoro, pubblicato alcuni mesi or sono e relativo al 2016.

 

SCHEDA

 

L’Istituto di statistica stima che nel 2016 il costo del lavoro in senso ampio delle unità economiche con almeno 10 dipendenti dell’industria e dei servizi sia pari a 41.785 euro per dipendente.

 

  1. Le retribuzioni lorde per dipendente ammontano a 30.237 euro e sono il 72,4% del costo del lavoro.
  2. A livello di macrosettore, l’Industria mostra i più elevati valori medi delle retribuzioni lorde annue per dipendente (32.805 euro); Servizi e Costruzioni registrano i livelli inferiori, pari rispettivamente a 29.476 e 27.969 euro.
  3. I contributi sociali incidono per il 27,3% sul costo del lavoro in senso ampio, in particolare, il peso percentuale delle singole componenti è del 20,9% per i contributi sociali obbligatori per legge, dello 0,4% per quelli volontari e contrattuali e del 3,6% per il Trattamento di Fine Rapporto.
  4. Le spese per la formazione rappresentano soltanto lo 0,2% del costo del lavoro in senso ampio.
  5. La retribuzione lorda per ora lavorata è pari a 20,19 euro, con una differenza di oltre sette euro tra le unità economiche con 1.000 e più dipendenti e quelle di piccole dimensioni (10-49 dipendenti).
  6. Nel 2016 nell’industria e nei servizi, ad esclusione del settore Amministrazione pubblica e difesa; assicurazione sociale obbligatoria, il costo del lavoro orario è pari a 26,07 euro nell’Unione europea a 25 paesi e 27,99 euro nell’area euro.
  7. Con 27,55 euro, l’Italia si posiziona leggermente sotto la media dell’area euro per il costo del lavoro orario e per la retribuzione lorda oraria, 19,92 euro contro 21,56 euro (nell’industria e nei servizi)
  8. L’incidenza dei contributi sociali sul totale del costo del lavoro orario, negli stessi settori confrontabili a livello Ue, è pari al 21,1% nell’Unione europea a 25 paesi, al 23% nell’area euro e al 27,7% in Italia.

 

Dove occorrerebbe incidere – dunque – per ridurre il costo del lavoro per il mondo dell’impresa ed incrementare le retribuzioni dei lavoratori? I dati parlano chiaro. A parte i miglioramenti che possono  derivare da un impegnativo utilizzo della contrattazione di prossimità, scambiando maggiore retribuzione  con incrementi  della produttività e della qualità del lavoro (tenendo ben conto delle agevolazioni fiscali previste) e dall’estensione delle esperienze del welfare aziendale, sul versante del costo del lavoro  la voce anomala – rispetto alla media Ue ed Eurozona –  riguarda l’incidenza dei contributi sociali (guai però a piangerci addosso perché comunque il costo del lavoro nel suo insieme non è certo tra i più elevati, come lo è invece il differenziale con la retribuzione netta).

 

Ma esistono dei margini effettivi per tagliare di 5-6 punti il carico contributivo che non è una fastidiosa escrescenza ma il sistema di finanziamento delle prestazioni sociali? Si direbbe di no, dal momento che, già oggi, tocca al bilancio dello Stato e quindi alla fiscalità generale far quadrare i conti e allocare risorse “fresche” quando la politica intende apportare dei benefici, ad esempio, nel sistema pensionistico (la cui aliquota è tanta parte del carico contributivo non solo per le imprese ma anche per i lavoratori). Fino a qualche anno fa, si raschiava il fondo del barile con la fiscalizzazione dei c.d. oneri impropri, dopo che nel 1995 nel quadro della riforma Dini delle pensioni si ‘’tosarono’’ tutte le aliquote delle altre prestazioni sociali per elevare al 32,7% l’aliquota pensionistica, nell’invarianza del costo del lavoro.

 

In tale situazione, per favorire nuove assunzioni, non resterebbe che la strada della decontribuzione, come per altro si è fatto in altre circostanze (ricordiamo per tutte la legge di bilancio per il 2015), pareggiando i conti con trasferimenti da parte dello Stato. Si dovrebbe almeno prendere atto che la tanto decantata corrispettività – alla base del principio assicurativo – tra contributi versati e pensione è soltanto un’illusione ottica. Se si volesse davvero riordinare il sistema, tanto varrebbe allocare i trasferimenti dal bilancio dello Stato in un trattamento di base di carattere universale, sul quale potrebbe innestarsi un secondo pilastro obbligatorio, a questo punto finanziato con un’aliquota più bassa dell’attuale anche di 8 o 9 punti (e con conseguente riduzione del costo del lavoro). Ovviamente occorrerebbe un periodo di transizione fondato su una ristrutturazione delle risorse oggi destinate al sostegno dell’assistenza.

 

Giuliano Cazzola

Membro del Comitato scientifico ADAPT

 

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