Politically (in)correct – A commento di una proposta di modifica dell’art. 39 Cost.

Bollettino ADAPT 26 aprile 2021, n. 16

 

In un articolo su lavoce.info del 7 aprile scorso, Se 866 contratti vi sembrano pochi?, Lucia Valente, giuslavorista e già assessore al Lavoro della Regione Lazio, ha affrontato uno dei temi che sono tornati alla ribalta da quando è aperto il dibattito sul salario minimo legale, a seguito delle iniziative legislative in tal senso a cui le organizzazioni sindacali contrappongono l’estensione erga omnes dei contratti collettivi, allo scopo di contrastare la diffusione dei c.d. contratti pirata. Questa è la definizione che viene data al fenomeno dei contratti al ribasso (sono stimati tali circa 500) siglati da associazioni datoriali non rappresentative con sindacati, anch’essi privi di effettiva rappresentanza. Tali contratti stabiliscono condizioni peggiorative per i lavoratori, per risparmiare sul costo del lavoro, ed operano quindi una concorrenza sleale a imprese e associazioni datoriali corrette.

 

All’inizio della legislatura, prima che le misure di resilienza alla pandemia sequestrassero l’attività politica dei governi e del Parlamento, la Commissione Lavoro del Senato stava lavorando su di un testo base della allora presidente Nunzia Catalfo che si proponeva di dribblare l’articolo 39 Cost. e andare a rete. Inapplicato e inapplicabile non solo per motivi politici, ma anche per la sua impostazione giuridica, l’articolo ha impedito una regolazione dei problemi della rappresentanza e della rappresentatività del sindacato per effetto di  una tautologia dell’assurdo: i criteri delineati dall’articolo non sono mai stati ritenuti praticabili ma, nello stesso tempo, per il loro rilievo di carattere costituzionale hanno impedito che venissero individuati percorsi legislativi diversi e meglio corrispondenti al modello che nel frattempo si era venuto a delineare. Il masochismo di certi settori del mondo sindacale, nel referendum del 1995, ha provveduto ad abrogare quella norma dello Statuto dei lavoratori (la lettera a) dell’articolo 19) che rappresentava sostanzialmente la legittimazione giuridica del sistema di relazioni industriali sviluppatosi nella seconda metà del secolo scorso in base al comma 1 dell’articolo 39 (“l’organizzazione sindacale è libera”) ma al di fuori di quanto previsto dagli altri commi (la registrazione, la personalità giuridica, i criteri della rappresentanza e della rappresentatività, i requisiti e le procedure atte ad attribuire efficacia erga omnes ai contratti di categoria).

 

Così il diritto sindacale è tornato in alto mare in balia dei contratti applicati nell’unità produttiva (e delle organizzazioni firmatarie). Per fortuna c’è sempre l’articolo 36 che sancisce il diritto del lavoratore ad una retribuzione “proporzionata” e “sufficiente”, tale ritenuta dalla giurisprudenza quella corrispondente ai minimi tabellari stabiliti dai contratti collettivi. E qui casca l’asino: perché non è detto che i tribunali continuino a considerare più uguali degli altri taluni contratti come è sempre avvenuto quando non subivano la concorrenza di un mercato scappato di mano. Poi c’è un altro problema: i sindacati non si accontentano dell’applicazione dei minimi da loro negoziati (per questi motivi sono contrari al salario orario legale), ma pretendono che nel trattamento minimo rientri anche la parte economica/normativa. Come salvare la capra del salario minimo e i cavoli della contrattazione collettiva ad efficacia generale, ancorché in modo surrettizio? Non è la somma che fa il totale? Se è così basta mettere tutto insieme, attribuendo prioritariamente efficacia erga omnesal trattamento economico complessivo” sancito nei contratti collettivi, attraverso la scorciatoia dell’articolo 36. In più, il ddl stabiliva che il salario orario legale (quindi anche quello contrattuale) non potesse essere inferiore a 9 euro lordi.

 

Infine ecco il giudizio di Dio: “In presenza di una pluralità di contratti collettivi applicabili ai sensi dell’articolo 2, il trattamento economico complessivo che costituisce retribuzione proporzionata e sufficiente non può essere inferiore a quello previsto per la prestazione di lavoro dedotta in obbligazione dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative a livello nazionale nella categoria stessa, e in ogni caso non inferiore all’importo previsto al comma 1 dell’articolo 2 (i 9 euro, ndr).” Torniamo così a Lucia Valente, la quale, nell’articolo, libera il campo dagli equivoci e dai giochi di prestigio paragiuridici: “occorre – scrive – una legge costituzionale votata, in seconda lettura, da almeno i due terzi di ciascuna delle Camere” che modifichi l’articolo 39, il quale, pur restando inattuato, ha avuto ed ha comunque l’effetto di impedire ogni soluzione legislativa diversa. Si tratta di una considerazione condivisibile che riporta il problema <con i piedi per terra>. Non credo, invece, che basti modificare il comma 4 dell’articolo “Ghino di Tacco”.  In proposito Lucia Valente propone anche un nuovo testo: “La legge stabilisce i requisiti affinché il contratto collettivo sia efficace in tutta la categoria alla quale esso si riferisce”. Per maggiore chiarezza confrontiamo il testo proposto con quello attuale del comma 4: “I sindacati registrati hanno personalità giuridica. Possono, rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce”. Dove sta secondo Valente il problema? A suo avviso il comma da modificare (approfittando di una larga maggioranza parlamentare) ‘’contiene un errore logico: impone la definizione per legge o atto amministrativo delle “categorie” nell’ambito delle quali misurare la rappresentatività dei sindacati, cosa incompatibile con la libertà sindacale sancita dal primo comma’’.

 

Non vorrei essere scambiato per un’impertinente vice-ministra del Conte 1, ma sommessamente mi scappa un “questo lo dice lei”. Proprio perché esiste il comma 1 – l’unico applicabile – non esiste l’interpretazione per cui la categoria deve essere definita per legge o atto amministrativo (del resto non vi è nell’ordinamento una norma che disponga in tal senso). Il principio della categoria come ripartizione definita, come ambito ontologico, apparteneva al diritto corporativo. Non c’è dubbio che sia stato necessario un rapporto di subentro, nell’ordinamento preesistente, del sindacalismo della rinata democrazia. Il decreto luogotenenziale del 1944 mantenne in vigore gli accordi corporativi fino alla loro modifica per una questione banale: erano applicati nei posti di lavoro e le regole non potevano sparire d’incanto fino a quando non se ne concordavano delle nuove. Io sono sempre stato convinto che il legislatore costituzionale, nello scrivere l’articolo 39, abbia preso come riferimento la situazione in atto, piuttosto che quella pre-corporativa dell’Italia liberale (che poi ha finito per prevalere nella realtà). Ma anche il concetto di categoria è mutato necessariamente in un ordinamento democratico in cui è stabilito che “l’organizzazione sindacale è libera”. E il concetto di “organizzazione” ricomprende non solo il soggetto sindacato ma anche il suo ordinamento interno e l’attività che svolge. Poi ad accanirsi sul comma 4 non si risolvono i problemi.

 

In primo luogo perché, anche con le modifiche suggerite da Lucia Valente, vi è un rimando alla legge ordinaria che ha il compito di stabilire “i requisiti affinché il contratto collettivo sia efficace in tutta la categoria alla quale esso si riferisce”. En passant, mi permetto di chiedere per quali motivi la parola “categoria”, nella nuova formulazione, dovrebbe avere un quid diverso da quello del comma 4 ora in sonno. Valente, a questo punto, sostiene che la legge ordinaria potrebbe recepire i criteri e le modalità del Testo Unico del 2014. Vasto programma.  Saremmo, però, a cavallo se il diavolo non ci mettesse la coda. I commi 2 e 3 dell’articolo 39 resterebbero in vigore. Ricordiamone le disposizioni

2. Ai sindacati non può essere imposto altro obbligo se non la loro registrazione presso uffici locali o centrali, secondo le norme di legge.
3. È condizione per la registrazione che gli statuti dei sindacati sanciscano un ordinamento interno a base democratica.

 

La prof. Valente converrà che la nuova legge ordinaria – ancorché liberata dai criteri di rappresentatività e di proporzionalità in base agli iscritti ora previsti dal comma 4 – non potrebbe mai prescindere da quanto disposto nei commi sopravvissuti. Sarà un mio limite, ma io avverto, in un sindacato che si sottopone a quegli adempimenti, una sensazione di déjà vu che non mi piace.

 

Giuliano Cazzola

Membro del Comitato scientifico ADAPT

 

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