Il mio canto libero – PNRR e patto sociale: no modello Ciampi, gli accordi servono se sostengono la discontinuità

Bollettino ADAPT 26 aprile 2021, n. 16

 

Con l’approssimarsi del varo del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, si è riproposta l’ipotesi di un enfatico patto sociale per sostenerne l’implementazione nel segno della profonda innovazione. E, come accade spesso in queste circostanze, si ricorre all’immagine “politicamente corretta” dell’accordo promosso da Ciampi nel 1993.

 

Ricostruire la dinamica del dialogo tripartito negli anni ‘80 e ‘90 può essere quindi utile non solo a dare a ciascuno il suo (merito), ma anche a cercare nel presente modello di intesa tra le parti sociali e le istituzioni che risultino ragionevolmente utili a sostenere la ripartenza della crescita.

In quel tempo, l’Italia si trovò ad affrontare due fasi particolarmente critiche. La prima, all’inizio degli anni ‘80, si caratterizzò per una straordinaria combinazione di inflazione e recessione mentre le istituzioni erano aggredite da un ampio fenomeno terroristico ideologizzato. La seconda, circa dieci anni dopo, mise a dura prova la stabilità della nostra moneta e la liquidità dello Stato sulla base di una tempesta perfetta che in Italia ha sommato uno scontro di potere e tra poteri senza eguali, la perdita di controllo delle dinamiche del debito pubblico, il crollo di credibilità nei mercati finanziari.

 

Nelle due circostanze, i governi dell’epoca chiamarono le parti sociali a condividere (e negoziare) un pacchetto di politiche pubbliche prima ancora del doveroso confronto con il Parlamento. Nel 1984 sindacati e imprenditori furono richiesti di sostenere una forte iniziativa di contrasto dell’inflazione a due cifre attraverso la predeterminazione di salari, tariffe, prezzi amministrati, tasse secondo parametri desiderati (e tutti da conquistare). Nel 1992 le maggiori organizzazioni sociali accettarono di appoggiare una manovra correttiva dei conti pubblici di ben 100 mila miliardi delle vecchie lire che agí sulle spese correnti per previdenza, sanità, pubblico impiego, finanza locale. In entrambe i casi si trattò di una scommessa (non un azzardo) per il bene superiore della nazione fortunatamente vinta da tutti i sottoscrittori.

 

Ben diverso fu l’accordo dell’anno successivo. Il governo preelettorale guidato da Ciampi si pose l’obiettivo di ristorare il sindacato che più aveva sofferto l’intesa sulla grande manovra di finanza pubblica e che si era opposto al superamento della scala mobile con un pacchetto di regole sulla contrattazione collettiva. Non solo veniva irrigidito nei contratti nazionali il gioco d’anticipo dell’inflazione programmata, applicato nel decennio precedente a tutti i redditi, ma si stabiliva un recupero dell’inflazione effettiva ogni due anni. Veniva così soddisfatta la linea degli andamenti retributivi egualitari e, seppur successivamente, questi si avvicinarono all’inflazione verificata “a prescindere”. Non a caso oggi Draghi sottolinea come nel ventennio trascorso vi sia stata una forte perdita di produttività del lavoro e di tutti gli altri fattori nell’economia italiana.

 

Insomma, due Patti concertativi faticosi perché fondati su una comune scommessa impopolare nei presupposti. E un accordo di facile consenso perché dedicato al recupero dell’inflazione nei salari ma non della produttività divenuta nel frattempo il vero fattore di competitività.  Perché mai quindi dovremmo assumere a modello il patto Ciampi?

 

Maurizio Sacconi
Chairman ADAPT Steering Committee
@MaurizioSacconi

 

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