Pochi occupati giovani vuole dire meno competitività

La disoccupazione in Italia sale al 13,2%. Il tasso di occupazione è pari al 56%, lontano dagli standard; l’Europa ci dice che una società è socialmente ed economicamente in equilibrio quando ha almeno il 70% di popolazione in grado di lavorare effettivamente occupata, e alcuni paesi europei sono su questi obiettivi.
 
Il tasso di disoccupazione giovanile (fascia 15-24 anni), la quota dei disoccupati sul totale di quelli occupati o in cerca, è pari al 43,3%. Ciò non significa che quattro giovani su dieci sono disoccupati: il disoccupato è colui che è in cerca di lavoro e non lo ha ancora trovato; lo studente non è un disoccupato. I giovani disoccupati sono 708 mila e l’incidenza sulla popolazione di riferimento è pari all’11,9%.
 
Se consideriamo il numero dei giovani rassegnati rilevato dall’Ocse, i cosiddetti Neet (Not in education, employment or training) sono più di due milioni: si tratta di giovani nella fascia 15-29 che non sono iscritti né a scuola né all’università né lavorano e nemmeno seguono corsi di formazione/aggiornamento.
Secondo uno studio Eurofound, gli inattivi italiani ipotecano, oltre al proprio futuro, circa 26 mld di euro l’anno, pari all’1,7% del Pil, al netto delle mancate tasse, dei costi indiretti in termini di salute e criminalità, oltre che di perdita di competitività sociale. Rispetto alle medie europee, l’Italia presenta indicatori anomali non solo per quel che riguarda tasso di occupazione e Neet, ma anche sul rapporto tra tasso di disoccupazione generale e giovanile; la media della disoccupazione nell’Ue è del 10%, ma se guardiamo a paesi come Germania (6,4%), Gran Bretagna (6%), Austria (5,1%), Francia (10,5%) e Danimarca (6,4%) ci accorgiamo che il livello di disoccupazione giovanile è grosso modo intorno al doppio del livello di disoccupazione generale; quello italiano è quasi quattro volte maggiore. L’analisi di questa anomalia permette di capire la questione dell’occupazione giovanile italiana.
 
In Italia l’età media del primo impiego è piuttosto alta: siamo attorno ai 22 anni, contro il 16,7 dei tedeschi, 17 degli inglesi e 17,8 dei danesi; bisognerebbe quindi tenere conto, tra i 708 mila giovani disoccupati, di coloro che hanno meno di 22 anni per avere un quadro più realistico.
 
In secondo luogo, in Italia si registrano i più alti tassi di lavoro sommerso (secondo Eurispes e il suo Rapporto 2012 il lavoro sommerso in Italia equivale a135% del Pil) e il mercato nero coinvolge molti giovani.
 
In terzo luogo, la marginalizzazione dei giovani dal mercato del lavoro è un fenomeno che esiste almeno da 30 anni a metà degli armi 80 il livello della disoccupazione giovanile era oltre il 30%; il fenomeno dei Neet ha iniziato a essere monitorato dall’Eurostat nel 2002: all’epoca il livello italiano era intorno al 16,8%, oggi è al 22,2%.
 
Questi tre fattori spiegano la poca inclusione dei giovani nella nostra economia, cosa che l’Italia sta pagando a caro prezzo. Le economie europee più competitive investono molto sui giovani perché sono portatori di innovazione, e non solo su quelli di casa loro, ma facendo in modo che le loro Università ne accolgano da altri paesi. È chiaro che, una volta inseriti nel mercato, questi sviluppano ponti commerciali con i loro paesi di provenienza. L’Italia non solo marginalizza e precarizza quei pochi che ha, ma ne perde molti che scelgono di andare a lavorare all’estero e ne attrae pochissimi dagli altri paesi.
 
All’inizio del nuovo millennio l’Italia era la quinta potenza economica del mondo, ma da allora ha perso 10 punti di Pil. Ciò non si spiega solo con la crisi ma con la mancanza di risposte che il paese ha dato ai cambiamenti dell’economia globale.
L’Italia non si è rinnovata, sono stati fatti pochi interventi strutturali e le nostre imprese, capaci di sviluppare prodotti importanti, hanno cominciato a soffrire sul mercato globale i diretti competitor dalle spalle più larghe. Il tessuto produttivo è composto nel 98% dalle PMI e il “piccolo” soffre sui grandi mercati. Si obietterà che i giovani sono bamboccioni, sono choosy come li definì Elsa Fornero. In parte è vero. Eppure la Commissione europea ci dice che nel Vecchio continente 34 mila giovani italiani laureati nelle nostre università lavorano nel settore della ricerca e dello sviluppo. Perché non hanno trovato posto in Italia?
 
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Pochi occupati giovani vuole dire meno competitività
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