Perché l’Italia deve emulare la riforma tedesca del lavoro

La Germania può rappresentare un modello per la riforma del lavoro nel nostro Paese? È l’interrogativo che riecheggia negli organi di informazione e nei talk show televisivi dopo che il premier Matteo Renzi ne ha fatto un punto cardine del programma dei Mille giorni.

Al centro delle analisi e del confronto è il pacchetto di interventi realizzati tra il 2003 e il 2005 dall’esecutivo di Gerhard Schroeder su proposta della “Commissione per Servizi moderni nel mercato del lavoro” guidata da Peter Hartz, membro del consiglio d’amministrazione della Volkswagen.

 

Per comprenderne i principi ispiratori, il funzionamento, le innovazioni, i risultati e l’applicabilità in Italia Formiche.net si è rivolta a Silvia Spattini, Direttore e Senior Research fellow di ADAPT, il centro studi e ricerche creato dal giuslavorista Marco Biagi. Spattini ha curato di recente con Francesco Seghezzi un articolato dossier sulla riforma tedesca.

 

Professoressa, quali erano gli obiettivi della riforma messa a punto in Germania nel 2002-2003?

Il complesso di interventi tocca molteplici temi. La riorganizzazione dei servizi pubblici per l’impiego, le strategie per favorire il reinserimento dei lavoratori nel mercato del lavoro, la maggiore flessibilità dei rapporti professionali con l’aumento dei contratti a tempo determinato, la promozione dell’auto-impiego e delle micro-imprese, l’emersione del lavoro irregolare attraverso strumenti come i mini-job. Misure affiancate a strumenti altrettanto rilevanti.

 

Quali?

Una rete moderna di ammortizzatori sociali, fondata su due pilastri. Da un lato la razionalizzazione delle indennità di disoccupazione per i lavoratori finanziata con i contributi previdenziali. Dall’altro la previsione di sussidi di stampo assistenziale legati alla lotta contro la povertà. Benefici vincolati all’impegno del lavoratore a compiere una ricerca fattiva della nuova attività in coordinamento con il servizio pubblico per l’impiego.

 

Il pacchetto di interventi ha prodotto risultati efficaci?

Senza dubbio, considerando che l’obiettivo principale – ridurre l’elevato livello di disoccupazione esistente all’epoca e incrementare il tasso delle persone attive – è stato raggiunto. Nell’arco di 10 anni la Germania ha realizzato ottime performance da questo punto di vista. E, al contrario di quasi tutte le altre nazioni europee, non ha avuto bisogno di mettere a punto provvedimenti di emergenza per fronteggiare la crisi finanziaria ed economica. Perché anni prima aveva realizzato una riforma strutturale e organica.

 

È ciò che manca all’Italia?

L’elemento singolare è che nel nostro Paese proprio nello stesso periodo era stato compiuto un tentativo analogo, con la riforma del mercato del lavoro approntata dall’allora responsabile del Welfare Roberto Maroni su impulso di Marco Biagi e a lui dedicata. Provvedimento che però risultò monco della parte relativa alla riorganizzazione degli ammortizzatori sociali prevista dal Libro Bianco concepito dal giuslavorista. Elemento ben presente nella riforma tedesca, che comprende ammortizzatori sociali finalizzati alla ricerca di un’attività professionale.

 

Il modello tedesco contempla il contratto unico con tutele crescenti nel tempo a cui starebbe lavorando il governo?

Non lo prevede. Perché è fondato sulla coesistenza e alternanza di formazione, apprendistato, contrattazione decentrata, strumenti di integrazione del reddito. E ora, a seguito dell’accordo di coalizione tra CDU e SPD per la formazione del nuovo governo Merkel, anche sul salario minimo garantito per legge. L’elemento che fa avvicinare di più la realtà italiana alle regole vigenti a Berlino è l’esistenza di rapporti a termine più flessibili.

 

La giornalista economico-finanziaria Patricia Szarvas in un saggio edito dalla Università Bocconi ritiene che l’ampliamento delle basse retribuzioni abbia incrementato i “lavoratori poveri” e il divario economico-sociale in Germania.

L’istituto che avrebbe introdotto attività a bassa remunerazione e per questo ha alimentato molte critiche è quello dei mini-job. Ma la questione è cosa fosse peggio: restare privi di lavoro o averne uno non standard e a tempo indeterminato. È logico che sul piano dell’equità sociale un’attività professionale dovrebbe garantire un’esistenza dignitosa. Ma la Germania aveva la priorità di combattere un’elevata disoccupazione. E ha puntato su strumenti di integrazione al reddito rivolti alla persona e alla famiglia. Allo scopo di aiutarla nel pagamento dell’affitto e del riscaldamento, e nelle spese per la cura dei figli.

 

Consiglierebbe di importare le regole tedesche sul lavoro in Italia?

Il nostro maestro Marco Biagi ci ha sempre insegnato che la comparazione tra esperienze internazionali non equivale alla riproposizione matematica di un modello. Certo, valutando gli effetti delle risposte fornite in Germania, si possono prendere molti punti di riferimento. Adattandone altri alle caratteristiche della realtà italiana. Nella quale la retribuzione minima è garantita dalla contrattazione collettiva nazionale anziché dalla legge.

 

Cosa è più importante adottare nel nostro paese degli interventi realizzati oltre il Brennero?

La contrattazione aziendale fondata sulla cogestione delle aziende da parte dei lavoratori. Mentre non ritengo prioritario permettere una più ampia elasticità nei licenziamenti e il superamento dell’articolo 18, visti l’aumento dei rapporti a tempo determinato e la grande varietà dei contratti lavorativi nelle realtà produttive. Ma vi è un elemento in più.

 

Di cosa si tratta?

Nell’elencazione originaria del Job Act Renzi aveva peraltro prefigurato un’agenzia unica e semplificata per il lavoro. Ricalcata sull’agenzia federale tedesca che gestisce le politiche attive per l’occupazione. Ambito tra i più critici in Italia a seguito della riforma del Titolo V della Costituzione.

 

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