Partecipazione dei lavoratori e piccoli azionisti: una contraddizione solo apparente?

Interventi ADAPT

| di Marco Menegotto

Bollettino ADAPT 13 ottobre 2025, n. 35
 
Lo scorso 8 ottobre il Consiglio dei Ministri ha approvato lo schema di decreto legislativo di riforma del Testo unico in materia di intermediazione finanziaria (TUF), in attuazione della legge delega n. 21/2024. Una materia apparentemente lontana dalle relazioni industriali e di lavoro.

Ferruccio de Bortoli nei suoi Frammenti sul Corriere.it (“Se i piccoli azionisti sono dei rompiscatole”) ci ha segnalato come questa potrebbe comportare l’esclusione dalle discussioni assembleari dei soci che abbiano azioni inferiori allo 0,1% del capitale sociale. E questo proprio nella Legislatura che sarà ricordata per l’approvazione della legge sulla partecipazione dei lavoratori (S. Zuccoli,Partecipazione dei lavoratori: cronaca di una legge di attuazione della Costituzione (art. 46)).

Proviamo qui a comprendere, sul piano tecnico, la portata dell’intervento.

Nell’ambito della più ampia riforma delle disposizioni di Codice civile e Testo unico, si va ad introdurre un nuovo articolo (articolo 125-bis.1) sulle modalità di svolgimento delle assemblee delle società emittenti.

è in questa sede che «Lo statuto o in alternativa il regolamento [approvato dagli amministratori]  possono, altresì, stabilire (…) una soglia individuale di possesso azionario, comunque non superiore all’uno per mille del capitale sociale, (…) cui subordinare la partecipazione alla discussione in assemblea fermo restando il diritto di presentare proposte di deliberazione (…) e di porre domande (…)» (comma 4).

Una disposizione che si fonda su un chiaro (e anche condivisibile) principio, quello di «aumentare la competitività del mercato nazionale e semplificare e razionalizzare la disciplina degli emittenti, ivi inclusi la partecipazione assembleare,(…)» (articolo 19, comma 2, lett. b), legge n. 21/2024) che, se letta in parallelo alla legge n. 76/2025 sulla partecipazione dei lavoratori all’impresa (per un primo commento organico, v. M. Tiraboschi (a cura di), Primo commento alla legge di iniziativa popolare sulla partecipazione dei lavoratori (approvata dal Parlamento il 14 maggio 2025), ADAPT University press, 2025) finirebbe per creare, per dirla con de Bortoli, un contrasto tra le due filosofie di fondo.

Da un lato cioè nel tempo(TUIR e legge 76) si è incentivato, anche sul piano fiscale, il processo di azionariato dei dipendenti, dall’altro si introducono possibili limitazioni alla partecipazione assembleare proprio di coloro che – come si immagina potrebbero collocarsi i dipendenti azionisti – detengono quote marginali di azioni.

Qualche ulteriore considerazione può comunque esser fatta, per comprendere se ed in che termini si potrebbe creare, sul piano della sostanza (oltre che della filosofia su cui si fondano le riforme), una vera contraddizione con effetti collaterali.

Va intanto detto che, vista la collocazione del nuovo articolo, questo varrebbe solo per le società emittenti, ovvero «soggetti[come le SPA o anche lo Stato, ndr] che, per il finanziamento delle proprie attività, emettono strumenti finanziari [ad esempio azioni o obbligazioni, ndr] atti alla circolazione e quindi a essere scambiati su un mercato» (v. Glossario finanziario, Borsa Italiana). E questo limita, almeno in parte, i possibili effetti negativi all’azionariato, posto che una società per azioni non per forza (ed anzi non frequentemente) finisce per quotarsi su un mercato regolamentato (Borsa o mercati esteri).

Qualche problema potrebbe crearsi nelle società di più grandi dimensioni e quotate – magari perché influenzate da percorsi di azionariato costruiti a livello multinazionale (non mancano esempi in questo senso: Campari, Gucci, EssilorLuxottica e altri) –, forse tra le più aperte all’implementazione di percorsi di partecipazione finanziaria dei lavoratori.

Invero, non si tratta di una disposizione prescrittiva, limitandosi invece ad aprire ad una possibilità regolamentare nelle mani degli organi di amministrazione e controllo delle società, i quali certo avranno tutto l’interesse a garantirsi, magari anche con una soglia del genere, la stabilità di gestione.

In ogni caso, una possibile strada potrebbe essere quella della aggregazione dei lavoratori che possiedono azioni in una associazione di azionisti (articolo 141 TUF) cui conferire le deleghe di voto. Su questo sarebbe al limite funzionale un chiarimento legislativo circa la loro ammissibilità anche in presenza delle nuove limitazioni e forse anche una semplificazione in termini di requisiti per la costituzione quando rappresenti unicamente lavoratori.

Infine, va pure detto che per il peso azionario che si presume possano acquisire i lavoratori coinvolti in simili programmi, saranno comunque sempre limitati ad una minoranza rispetto agli aventi diritto di voto assembleare, con un conseguente ridotto margine d’influenza, anche laddove il valore monetario delle quote raggiungesse discreti livelli.

In altri termini, se è vero che in astratto (e di sensibilità alle scelte politiche viste nel suo complesso) di contraddizione può probabilmente parlarsi, d’altra parte ci sono elementi che tendono a derubricare questo presunto contrasto insanabile, nella consapevolezza dell’importanza di strumenti anche legislativi di semplificazione e certezza per gli organi di gestione delle società quotate.

Marco Menegotto

Ricercatore ADAPT Senior Fellow

X@MarcoMenegotto