Obbligo di fedeltà e diritto-dovere di critica. Brevi note a margine di una recente ordinanza

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Bollettino ADAPT 26 aprile 2022, n. 16
 
Nella ormai nota vicenda del dirigente d’azienda licenziato per aver scritto, in un messaggio diretto ai vertici aziendali, una frase ritenuta idonea ad interrompere il rapporto fiduciario col datore di lavoro, ben poco sappiamo del contesto in cui la frase sia stata scritta o pronunziata. Sappiamo tuttavia che i Giudici (di merito e del diritto) hanno ritenuto il messaggio sufficiente a determinare la giustificatezza del licenziamento, escludendo il recesso arbitrario del datore di lavoro.
 
La vicenda giunge in Cassazione dopo due gradi di giudizio di merito dei quali, anche in tal caso, poco si sa, se non che la Corte d’Appello bolognese, confermando la decisione del primo giudice, aveva ritenuto che la «missiva telematica, pur non integrando la giusta causa di licenziamento, consentiva di ritenere configurata, alla luce del ruolo apicale e della conseguente intensità del vincolo fiduciario, la nozione di giustificatezza [….] con conseguente debenza dell’indennità supplementare».
 
Non è quindi facile esprimere un giudizio critico sull’ordinanza n. 2246 del 26 gennaio 2022 della Suprema Corte, che tuttavia pone interrogativi e domande a cui non sembra sia stata data adeguata risposta. E che non sarebbe corretto sottacere né far passare sotto silenzio.
 
Ai fini della giustificatezza del licenziamento del dirigente, la Suprema Corte chiarisce che «non è necessaria una analitica verifica di specifiche condizioni, ma è sufficiente una valutazione globale [….] idonea a turbare il rapporto fiduciario con il datore di lavoro, nel cui ambito rientra l’ampiezza di poteri attribuiti al dirigente; sicché assume rilevanza qualsiasi motivo che sorregga, con motivazione coerente e fondata su ragioni apprezzabili sul piano del diritto, il recesso».
 
La frase “incriminata”, pronunziata dal dirigente, è la seguente: “voi avete tradito la mia fiducia e buona fede e non so quanto potrò andare avanti a sopportare questo vostro comportamento che giudico inqualificabile”. Si è registrato un compatto schieramento tra i molti commentatori della giurisprudenza giuslavoristica, che appaiono in massima parte favorevoli alla decisione dei Giudici.
 
Il perno “giuridico” della questione ruota sulla (astratta) distinzione tra “giusta causa” e “giustificatezza” del licenziamento. La prima nozione trova fonte legale nell’art.2118 del c.c.; la seconda, di fonte collettiva, è stata introdotta dalla contrattazione degli anni 70 per limitare il potere datoriale, fino a quel momento assoluto e illimitato, di licenziare il dirigente “al cenno” (o, come più frequentemente si usa dire, “ad nutum”).
 
Omettendo, per necessità di sintesi, la profonda distinzione tra dirigente apicale, dirigente di linea e pseudo-dirigente –  necessaria per  commisurare l’effettiva «intensità del ruolo fiduciario» che il dirigente  ricopre nell’organizzazione aziendale –  il focus della questione si incentra sulla nozione di giustificatezza, che non coincide con quella di giustificato motivo (previsto dalla L. n. 604/1966) né con l’obbligo di fedeltà (previsto dall’art. 2105 c.c.) e mira ad escludere l’intento discriminatorio da parte del datore di lavoro, la cui prova, peraltro – diversamente da quanto avviene per i ruoli operai e impiegatizi – viene posta a carico del dirigente licenziato.
 
Le conseguenze tra le diverse prospettazioni non sono poca cosa. In presenza di intento discriminatorio si ha infatti la nullità del licenziamento del dirigente per giusta causa, ove sia provato che lo stesso sussista e/o ne costituisca il motivo unico e determinante (Cass. 16 agosto 2018, n. 20742).
 
In presenza di “giustificatezza” del motivo di licenziamento, anche se non sorretto da giusta causa (in tal senso si esprime l’ordinanza citata) si determina invece la perdita del posto di lavoro, a fronte del (mero) pagamento di un’indennità supplementare, che varia secondo l’anzianità aziendale del dirigente.
 
Non sfugge a chi scrive che la Suprema Corte ha da tempo affermato che “la valutazione dell’idoneità del fatto materiale ad integrare la giustificatezza è rimessa al giudice di merito ed in sede di legittimità resta sindacabile solo per vizi di motivazione” (Cass.11 marzo 2019, n. 6950). Nessuna meraviglia quindi che l’ordinanza in questione non spenda molte parole sulle “ragioni apprezzabili” che hanno indotto i Giudici di merito a ritenere che il messaggio contestato giustificasse il licenziamento intimato.
 
Resta però il dubbio sul percorso logico-giuridico seguito dai giudici di merito e, detto col doveroso rispetto, sull’appiattimento a-critico della Suprema Corte sulla (inconsistente) motivazione, che contrariamente alle tante voci a favore, appare in realtà scarna e approssimativa.
 
La frase contestata (scritta? Pronunziata e poi messa per iscritto?), con ogni evidenza ha un “prima” e un “dopo”. Del dopo (il licenziamento) sappiamo tutto. Del prima, non conosciamo il contesto in cui è maturata né, come direbbe il Metastasio, se trattasi di voce “dal sen fuggita” in un momento di stanchezza o in risposta ad una provocazione, ovvero faccia seguito ad una più ampia e articolata discussione sul merito di una o più questioni affrontate col vertice aziendale sulle quali evidentemente non vi era condivisione da parte del dirigente. E che in ogni caso i Giudici hanno evidentemente ritenuto superfluo indagare.
 
Non sappiamo infine se, al contrario, si tratta di un’affermazione studiata e meditata dal dirigente per predisporsi una tutela difensiva in caso di licenziamento, scritta quindi con la consapevolezza di quelle che avrebbero potuto essere le conseguenze. Non sappiamo, in definitiva, chi sia stato il “provocatore”, chi sia il “provocato” né quale fosse il motivo del diverbio (o della provocazione). E non è poco.
 
Una cosa tuttavia sembra certa: la frase nasce – e verosimilmente resta circoscritta – nella stretta dimensione del recinto aziendale ed all’interno di un confronto tra il manager ed il suo imprenditore. Non viola quindi l’obbligo di riservatezza che resta circoscritto allo stretto ambito dei soggetti partecipanti alla discussione.

 

Non risulta (a quanto si sa) che il dirigente abbia inviato il messaggio a soggetti esterni o estranei alla discussione, né che abbia “postato” il suo giudizio sui “social”. Della qual cosa in ogni caso non v’è traccia nell’Ordinanza, né viene contestata da parte del datore di lavoro (che di fatto avrebbe avuto difficoltà di dimostrare).
 
Alla luce di queste premesse, per quanto assurdo possa sembrare agli occhi di chi non ha mai vissuto l’impresa in ruoli manageriali – nella vicenda che qui si commenta il dirigente, esprimendo senza remore il suo dissenso, ha in realtà manifestato, come spesso in concreto avviene, una premura ed un segno di affezione e di fedeltà alla sua azienda, al punto da assumersi consapevolmente il rischio di un aspro confronto e di un apprezzamento negativo sulle scelte dell’imprenditore.
 
Una decisione coraggiosa, che riporta nell’ambito della “lealtà aziendale” quella che spesso viene confusa con la “fedeltà all’imprenditore”. Lealtà che appare legittima nei limiti in cui la stessa resta circoscritta al rapporto interno tra manager e imprenditore e non si traduce, nell’operatività successiva, in un “remare contro” alle scelte di quest’ultimo, che vanno comunque rispettate.
 
Si potrebbe obbiettare che l’azienda non è una proprietà del manager ma dell’imprenditore, che ha diritto anche di far scelte sbagliate. Anche questa obiezione è tuttavia, almeno in parte, contestabile. Vanno infatti anche ricordati i diversi ruoli che la dottrina – e la stessa giurisprudenza – attribuiscono alle due figure del rapporto di lavoro.

 

All’imprenditore fa capo la responsabilità sociale, che si manifesta nella scelta che lo stesso compie tra decisioni che possono comportare un sacrificio delle attese sociali (interesse economico degli azionisti) e decisioni che possono comportare un sacrificio economico ai fini sociali (interesse economico che non prescinde dalla sicurezza e dal rispetto dei rapporti di lavoro).
 
Al manager fa capo il diritto-dovere non solo di attuare, ma anche di proporre all’imprenditore scelte diverse da quelle prospettate, laddove le ritenga maggiormente volte ad assicurare lo sviluppo dimensionale, la crescita e la produttività dell’impresa.

 

Se così non fosse, la figura del manager intesa come “alter ego dell’imprenditore”, non avrebbe alcun senso di esistere. Corrispondentemente, non si dovrebbe parlare per il dirigente di “prestazione di risultato” ma, come per gli impiegati, di mera “prestazione a tempo”.

 

Un manager silente ed obbediente non è utile né fa il bene dell’impresa, anche se, tendenzialmente, si assicura una più lunga permanenza nel ruolo. Un manager che trova il coraggio di dire, lealmente e senza essere offensivo, “voi avete tradito la mia fiducia e buona fede e non so quanto potrò andare avanti a sopportare questo vostro comportamento che giudico inqualificabile”, in questa diversa prospettiva, è un manager da valorizzare e (forse) da tenersi caro.

 

Da quel manager l’imprenditore non avrà mai le sorprese o gli sgambetti interessati tipici dei manager falsamente sintonici e inutilmente accondiscendenti. Avrà una persona forse difficile da gestire, ma utile al bene dell’impresa e non certo da “sfiduciare”.
 
Del resto, il ruolo del dirigente è descritto proprio nel primo articolo del contratto collettivo (più volte richiamato più volte nell’ordinanza), che lo definisce come colui che “ricopre nell’azienda un ruolo caratterizzato da un elevato grado di professionalità, autonomia e potere decisionale […] al fine di promuovere, coordinare e gestire la realizzazione degli obiettivi dell’impresa”.

 

La giustificatezza del licenziamento, nel caso specifico, se attribuibile a quest’unica frase, non sembra dunque ravvisarsi sotto alcun profilo. Non si rileva nella violazione dell’obbligo di fedeltà, non si confonde col diritto di critica (come del resto è stato riconosciuto dagli stessi Giudici), ma neppure col dovere di condividere ogni scelta dell’imprenditore, fermo restando il suo dovere di attuarla, una volta che la scelta sia divenuta operativa, rispettando anche le scelte ritenute sbagliate.
 
La giustificatezza del licenziamento, sempre nel caso in esame, non può essere rilevata da una frase fine a se stessa, avulsa dal contesto e dalle ragioni di entrambe le parti. Una motivazione che non si addentra neppure ad indagare quale fosse il “comportamento inqualificabile” dei soggetti apicali che ha comportavo la forte reazione del dirigente non può essere considerata sufficiente ad avvalorare un giudizio di “giustificatezza” del licenziamento.
 
Non si rileva, infine, nel rispetto che l’imprenditore deve a chi ogni giorno sa di dover correre in una giungla come una gazzella inseguita da leoni. E che non può mai sbagliare, per non perdere, insieme alla fiducia del datore di lavoro, anche la fonte del suo reddito.
 
Nel caso esaminato, in conclusione, più che di riconoscimento dell’indennità sostitutiva sarebbe stato doveroso (e forse più corretto) indagare sull’esistenza di una giusta causa di licenziamento.
 
Antonio Tarzia

ADAPT Professional Fellow

Obbligo di fedeltà e diritto-dovere di critica. Brevi note a margine di una recente ordinanza