Modalità di organizzazione dell’orario di lavoro e impatti sul work-life balance: alcune considerazioni dal Rapporto ILO

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Bollettino ADAPT 23 gennaio 2023, n. 3
 
L’orario di lavoro ha da sempre occupato un posto di rilievo nei dibattiti sull’occupazione. Se in principio l’attenzione era posta sulla quantità di ore di lavoro svolte, ora, nella nuova grande trasformazione, la questione si arricchisce di importanti riflessioni sulla qualità dell’orario di lavoro. Quanto tempo passare al lavoro e come distribuire l’orario appaiono infatti fattori chiave in grado di determinare il benessere dei lavoratori e l’equilibrio tra vita privata e lavorativa.
L’ILO, che da sempre si è occupato di questi temi, parte proprio da queste considerazioni per mettere in luce, nel terzo capitolo del Rapporto Working Time and Work-Life Balance Around the World, l’impatto che le diverse modalità di organizzazione dell’orario di lavoro hanno sulla vita delle persone, in particolare nell’ambito del work-life balance.

 
Settimana lavorativa standard
 
Il capitolo, intitolato “Organizzazione dell’orario di lavoro e suoi effetti sull’equilibrio tra lavoro e vita privata” si apre con l’analisi della più tradizionale tra le modalità di gestione del tempo di lavoro: la settimana lavorativa standard. Infatti, nonostante siamo da sempre abituati a questa forma classica di organizzazione del tempo, strutturata dal lunedì al venerdì (almeno in Europa) e dal mattino fino al tardo pomeriggio, poco ci si è interrogati su quale effetto essa produca in termini di conciliazione vita-lavoro.
 
Rispetto a ciò che comunemente si potrebbe pensare, la settimana lavorativa standard facilita il work-life balance ed è associata a bassi indici di burnout. Grazie ad un numero stabile di giorni ed ore lavorative, essa permette nei fatti non solo di organizzare in anticipo i propri impegni personali, ma facilita altresì le relazioni sociali, essendo ciascuno occupato (lavorativamente parlando) nello stesso momento.

La “standard workweek” non è però esente da criticità, spiega l’ILO. Soprattutto per le donne, questo formato, così rigido e spesso immodificabile, male si concilia con gli impegni e le responsabilità familiari. Ecco allora che, di fronte alla necessità di una maggiore flessibilità, (quando non escluse dal mercato del lavoro), le donne scelgono altre modalità lavorative, come il part-time.
 
Lavoro a turni
 
L’analisi, arricchita da numerosi studi e ricerche, si concentra poi sul lavoro a turni (di notte e nei fine settimana). Al secondo posto per diffusione nelle economie formali, questa modalità viene definita dal Rapporto come un metodo di organizzazione dove i lavoratori succedono l’uno all’altro, cosicché l’azienda possa operare più a lungo rispetto alle ore di lavoro di un singolo occupato.

Come spesso ripeteranno i ricercatori dell’Organizzazione anche in altre occasioni, la disponibilità di dati comparabili a livello internazionale è scarsa e i risultati delle ricerche derivano prevalentemente da sondaggi promossi dai singoli governi.

Stante tale eterogeneità nella classificazione dei dati, gli studiosi paiono però concordi nel ritenere come il lavoro a turni (soprattutto notturno) sia la modalità di lavoro che rappresenta il più elevato rischio per la salute dei lavoratori.
 
In particolare, la mancanza di un regolare ciclo sonno-veglia comporta una più elevata probabilità di contrarre malattie gastrointestinali, cardiache e patologie psicologiche, nonché di sviluppare o esacerbare le cattive abitudini preesistenti (abuso di alcol o fumo).

Anche in termini di impatto sull’equilibrio vita-lavoro, numerosi ne sono gli effetti: meno tempo passato con la propria famiglia; un diverso ritmo giornaliero anche per consorti e figli; maggiori problematiche familiari; evidente difficoltà a condurre una socialità ordinaria.

Riassumendo in poche parole, il lavoro a turni si potrebbe associare a “social desynchronization”, termine ripreso dagli studi di Angerer e Petru (2010) e traducibile come l’alienazione prodotta dallo sganciamento delle abitudini di vita dei turnisti ai modelli temporali della società.
 
Tuttavia, spiega l’ILO, il lavoro a turni potrebbe avere anche un impatto positivo e facilitare l’equilibrio vita-lavoro. In tal senso, i turnisti risultano avere più tempo libero soprattutto durante le ore diurne e, grazie alla rotazione dei turni, accumulare molti giorni di riposo. Queste condizioni (anche se non sempre) consentono per esempio ai genitori di avere un orario di lavoro più adatto per la cura dei figli, offrendo una maggiore flessibilità per soddisfare le loro esigenze.
 
Part-time
 
Tra le modalità di organizzazione del tempo di lavoro più diffuse, il Rapporto passa in rassegna anche gli effetti del part-time.

Considerato come una situazione in cui le normali ore di lavoro sono inferiori a quelle dei lavoratori a tempo pieno (secondo gli standard dell’ILO, meno di 35 ore per settimana), il part-time è generalmente più elevato in paesi o aree ad alto reddito, come in Olanda o in Norvegia e, sebbene si associ tipicamente alle donne, negli ultimi anni si è assistito ad un moderato aumento del numero di occupati uomini, quasi certamente a causa della recessione indotta dalla pandemia.

Diversi studi affermano come gli effetti del part-time sull’equilibrio tra lavoro e vita privata derivano da tre diversi fattori: il numero di ore di lavoro; il programma di lavoro; la volontarietà della scelta.

Sintetizzando i tre elementi, è la libera scelta di svolgere un determinato (e basso) numero di ore di lavoro, compatibile con gli impegni personali, ad offrire un migliore work-life balance. Tuttavia, ciò non accade di frequente. Il più delle volte, chiarisce l’ILO, lavorare part-time significa per i coniugi lavorare nei fine settimana e/o la sera, in orari talvolta diversi per coprire le esigenze familiari. La conseguente riduzione del tempo familiare e la complicata gestione della vita in comune riducono così la soddisfazione per gli orari di lavoro atipici, anche quando si lavora poche ore.
 
In seno al part-time, una particolare attenzione è riservata al lavoro “on call”, in cui il tempo di lavoro è molto corto (meno di 15 o 20 ore alla settimana). Diffuso in Europa e conosciuto anche come “just-in-time” negli Stati Uniti, questa modalità può dirsi a zero ore oppure può prevedere per contratto un numero minimo di ore di disponibilità. In entrambi i casi, l’impatto sulla conciliazione vita-lavoro è ambiguo.
 
Da un lato, i suoi sostenitori ritengono che questa flessibilità lavorativa crei le condizioni ottimali per un miglior equilibrio tra vita e lavoro. Dall’altro lato, tesi che appare prioritaria per l’Organizzazione, tali considerazioni trascurano il fatto che lavorare poche ore non sempre è frutto di una libera scelta. Lavorare in condizioni di estrema flessibilità significa spesso avere orari imprevedibili e scarso controllo sull’organizzazione dei tempi.

Questi elementi si associano a situazioni di conflitto (anziché di equilibrio) tra vita e lavoro, soprattutto quando in famiglia vi sono bambini piccoli e, in modo molto simile a quanto accade per i lavoratori a turni, a risentirne è soprattutto la salute fisica e psicologica.
 
Orario flessibile
 
Successivamente, il Rapporto prosegue con l’analisi dell’orario flessibile, con il quale i singoli lavoratori hanno la possibilità di scegliere quando svolgere la prestazione lavorativa in base alle esigenze personali e, in alcuni casi, permette anche di scegliere il numero di ore da lavorare in una settimana.

L’orario flessibile può prevedere dei vincoli attraverso l’individuazione di limiti prestabiliti entro i quali l’orario di lavoro può variare (definizione classica di orario flessibile), ma può anche essere totalmente priva di tali limiti, determinando una piena autonomia di gestione dell’orario.

Considerando il fenomeno globalmente, risulta che il 47,2% dei dipendenti ha accesso a forme di flessibilità dell’orario di lavoro (il 33% entro certi limiti) e che tale flessibilità è maggiormente utilizzata dagli uomini (49,7% contro il 44,2% delle donne). Inoltre, è maggiormente diffuso nel Nord Europa (55,1%) e meno comune in Africa (25,2%), dove quasi tre quarti dei dipendenti lavorano con “fixed time” (ISSP 2015).
 
L’orario flessibile, spiega l’ILO, è un importante strumento di work-life balance in quanto permette ai singoli di organizzare il tempo lavorativo al fine di meglio adattarlo agli impegni extra-lavorativi. Per diversi studiosi, l’impatto positivo di tale modalità di gestione dell’orario si rivede anche sulla salute mentale dei lavoratori, in quanto contribuisce a ridurre i livelli di stress e migliorare la soddisfazione lavorativa.

Inoltre, esso non giova solo all’equilibrio vita-lavoro, e quindi ai lavoratori, ma anche alle aziende stesse. Infatti, diversi studi confermano che l’orario flessibile è associato ad una riduzione del turnover (con conseguente riduzione di costi di assunzione) e ad un aumento della produttività.

Tuttavia, non mancano le critiche. In tal senso, alcuni studi hanno rilevato che le madri lo usano prevalentemente per la cura dei figli, mentre i padri per le attività personali e, di conseguenza, l’utilizzo dell’orario flessibile potrebbe rafforzare gli stereotipi di genere. Altri temono invece che tale modalità potrebbe portare a difficoltà nella gestione del tempo per organizzare al meglio gli orari del team di lavoro.

Settimana lavorativa compressa
 
Successivamente, l’analisi si concentra sulla settimana lavorativa compressa. Tale modalità prevede che le ore di lavoro rimangono le stesse ma vengono distribuite in meno giorni rispetto alla “standard workweek” con conseguente allungamento delle singole giornate lavorative (ad esempio, 10 ore al giorno per 4 giorni anziché 8 ore al giorno per 5 giorni, in entrambi i casi per un totale di 40 ore settimanali).
 
Anche in questo caso, numerosi sono gli effetti positivi sull’equilibrio tra vita privata e lavoro: più tempo da trascorrere con le famiglie, per organizzare gite nel fine settimana, per socializzare e per svolgere attività personali. Non mancano anche i vantaggi per le aziende le quali, grazie alla settimana lavorativa compressa, risparmiano sui costi operativi e di manutenzione.

Ciononostante, alcuni studi criticano tale modello di gestione dell’orario di lavoro suggerendo che la sua introduzione aumenti la fatica, lo stress e provochi sintomi psicologici e fisiologici come problemi musco scheletrici e dolore al collo, spalle e schiena. Per contro, altri studi hanno invece mostrato una riduzione dei problemi cardiaci e gastrointestinali oltre ad un aumento del sonno.
 
Orario multiperiodale
 
Il Rapporto prosegue con l’analisi dell’orario multiperiodale, comprese le ore annualizzate. Tale modalità di organizzazione consente variazioni delle ore di lavoro, entro certi limiti massimi di ore giornaliere o settimanali, nel rispetto di una media settimanale o di un totale di ore prefissato per il periodo di riferimento.

Tale regime, spiega l’ILO, risulta particolarmente adatto per la gestione di quelle attività che tendono a ripetersi in maniera pressoché identica di anno in anno (ad esempio, il lavoro stagionale). In tal senso, tale modalità può migliorare la corrispondenza tra carico di lavoro e disponibilità di personale.

L’annualizzazione dell’orario di lavoro, per contro, rischia di far oscillare drasticamente le ore da una settimana all’altra e quindi, secondo l’ILO, un periodo di riferimento più breve, come ad esempio un mese, risulta più adatto rispetto ad un approccio annualizzato.
 
Sintetizzando gli effetti sul work-life balance, tale regime può facilitare l’equilibrio vita-lavoro favorendo la capacità di pianificare i propri impegni personali. Contrariamente, tale equilibrio può essere compromesso se la programmazione degli orari di lavoro preveda una elevata variazione da una settimana all’altra comportando fluttuazioni dei guadagni con conseguenti ansie e difficoltà economiche.
 
Conclusioni
 
In conclusione, esistono molte modalità per organizzare la giornata lavorativa e, secondo quanto mostrato dall’ILO nel Rapporto in commento, il numero delle ore lavorate e il modo in cui esse sono organizzate può notevolmente incidere sull’equilibrio tra vita privata e vita lavorativa influenzando positivamente il benessere dei dipendenti, oltre che portare significativi vantaggi per le aziende in termini di prestazioni, produttività e competitività.
 
Anna Marchiotti

Scuola di dottorato in Apprendimento e Innovazione nei contesti sociali e di lavoro

ADAPT, Università degli Studi di Siena

@Marchiotti_Anna
 
Gloria Maria Barro

Scuola di dottorato in Apprendimento e Innovazione nei contesti sociali e di lavoro

ADAPT, Università degli Studi di Siena

@GloriaMBarro

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