M. Tiraboschi: «Il Jobs Act di Renzi irrigidirà ancora di più il mercato del lavoro. L’articolo 18? È già acqua passata»

“Chi licenzia perde gli incentivi”, titolava lunedì 22 settembre il Corriere della Sera anticipando i contenuti della riforma del lavoro che il governo Renzi si accinge a scrivere, dopo la delega ricevuta dal Parlamento. Due dovrebbero essere le forme di rapporto: autonomo e dipendente. Con quest’ultimo che si divide a sua volta in tempo determinato e tempo indeterminato “a tutele crescenti”. Scomparirebbe così l’articolo 18 (con il reintegro sostituito, almeno nei primi anni, da un indennizzo) e per tutti i nuovi assunti secondo il contratto a tutele crescenti le aziende beneficerebbero di sconti sul costo del lavoro. Sconti che però andrebbero restituiti allo Stato in caso di licenziamento nei primi tre anni.
L’impianto della riforma non incontra l’apprezzamento del giuslavorista Michele Tiraboschi (foto sotto), allievo di Marco Biagi, direttore del centro studi Adapt. «Con questa riforma – spiega Tiraboschi a tempi.it – c’è il rischio di ripetere gli errori del passato, della riforma Fornero e del primo Jobs Act, ovvero novità di legge calate dall’alto che nulla hanno a che fare con una logica sussidiaria e partecipativa». E che non seguono la direzione verso cui stanno già evolvendo il mercato del lavoro e le scelte delle imprese.
 
Professor Tiraboschi, minacciando di ritirare gli incentivi in caso di licenziamento si rischia di scoraggiare ulteriormente le assunzioni?
 
Se veramente l’azienda, come si è letto sui giornali, fosse tenuta a restituire l’incentivo per i neoassunti in caso di licenziamento nei primi tre anni delle tutele crescenti, credo che, paradossalmente, ci troveremo di fronte al più grande disincentivo possibile per le nuove assunzioni. Senza contare che, come accade ogni volta che si stravolge l’impianto della legislazione sul lavoro, anche in questo caso si verifica il fenomeno per cui le aziende bloccano le assunzioni in attesa di vedere come cambierà davvero la legislazione. Cosa che non sapranno prima di sei mesi o addirittura un anno, quando la riforma del lavoro sarà operativa.
 
Insomma, non c’è speranza per chi vuole lavorare in questo paese?
 
Ricordiamo, a beneficio dei lettori, che stiamo parlando soltanto di indiscrezioni di stampa. Per fortuna, infatti, la delega concessa dal Parlamento al governo in materia di lavoro è precisa al riguardo, e non fa riferimento a una simile eventualità. Così come non vi si trova la richiesta di sfoltire o abrogare alcuno dei contratti esistenti, ma soltanto quella di semplificare le tipologie attuali. L’ipotesi che si è appresa dai giornali di ridurre la scelta tra tempo indeterminato e tempo determinato, sopprimendo così il lavoro intermittente, i contratti a progetto, la somministrazione e le agenzie interinali, ricalcherebbe sostanzialmente l’impianto della riforma siglata dal duo Monti-Fornero. Una riforma che, come sappiamo, ha già fallito l’obiettivo.
 
Posto che il lavoro non si crea per legge, cosa dovrebbe fare Renzi per agevolare le assunzioni?
 
Questo governo dovrebbe avere il coraggio di fare una battaglia dura fino in fondo per portare il paese nel futuro. L’articolo 18, infatti, o si elimina del tutto o si mantiene per tutti. Una soluzione pasticciata, che prevede che l’articolo 18 resti in vigore per chi è già stato assunto mentre per i nuovi assunti non valga più (eccetto che per il pubblico, dove di superamento dell’articolo 18 non si è nemmeno parlato), non cambierà nulla. Anzi complicherà ulteriormente le cose, soprattutto per i più giovani. Per loro oltretutto la scelta non è neanche tra tempo determinato e tempo indeterminato, ma quasi sempre tra uno stage e un contratto a progetto o una partita Iva. Infatti lo scenario che si prospetta lascia purtroppo ipotizzare che le imprese manterranno ancora a lungo chi hanno già assunto, mentre il mercato del lavoro si irrigidirà ulteriormente per chi sta cercando di entrare.
 
Intende dire che non c’è alternativa ai contratti precari?
 
Sto dicendo che il mercato del lavoro è cambiato. L’articolo 18 è l’eredità di un’epoca che non c’è più, dove il licenziamento era la massima espressione del lavoro “fordista”, di una struttura verticistica di comando e controllo, della supremazia del “padrone” sull’operaio. Il lavoro moderno, invece, è più autonomo, il rapporto tra datore e dipendente si è fidelizzato, è più intenso e non è la minaccia di licenziare una persona che aumenta di più la sua produttività. Senza contare che il ciclo di vita della stragrande maggioranza delle aziende è più breve di un tempo, le imprese nascono, vivono e muoiono molto in fretta, nel giro di tre o quattro anni, e si sta diffondendo una logica di rete. Tutto ciò non può essere ingabbiato in schemi tradizionali del passato. Non è l’articolo 18 ad essere “vecchio”, è vecchio il concetto stesso di tempo indeterminato.
 
Quindi qual è l’alternativa agli stage e ai contratti a progetto?
 
Al netto di alcune dichiarazioni altisonanti, ci sarebbe, in realtà, ancora da far dialogare sul serio il mondo della scuola e dell’università con quello del lavoro, specie per quanto riguarda tutte quelle figure tecniche e specialistiche che sono la parte vitale dell’impresa. Ma la vera riforma del lavoro, in Italia, l’ha già fatta l’ultimo governo Berlusconi nel 2011, quando l’allora ministro del Lavoro Maurizio Sacconi ha fatto introdurre l’articolo 8 nella legge finanziaria. E che ora è a tutti gli effetti una legge dello Stato. È la norma che prevede la contrattazione decentrata tra aziende e sindacati, in materia di orari e retribuzione, con la possibilità di stipulare contratti e accordi di produttività in deroga allo Statuto dei lavoratori, anche nella parte che riguarda i licenziamenti, eccezion fatta per quelli discriminatori. Ma non è solo questo. L’articolo 8, infatti, prevede, in cambio della deroga, la partecipazione dei dipendenti ai profitti, sposando una logica più sussidiaria e partecipativa e riportando al centro delle relazioni industriali la produttività.
 
Perché, dunque, della contrattazione decentrata non si sente mai parlare?
 
Si tratta di un’opera artigianale, sommersa, quasi clandestina, che alcune aziende stanno conducendo da tempo con i sindacati locali, all’ombra delle grandi confederazioni. Alcune di esse, infatti, esercitano ancora troppo spesso un diritto di veto, scegliendo di non firmare gli accordi e dimostrando così di non voler innovare le relazioni di lavoro. Ed è il motivo per cui, forse, si è ancora una volta tornati a discutere dell’abolizione per legge dell’articolo 18. Ma l’articolo 18 è già stato superato, grazie all’articolo 8 e alla contrattazione decentrata. Di accordi di questo tipo potrebbero essercene già centinaia, nessuno lo sa con precisione, ma speriamo che diventino sempre più frequenti in futuro.
 
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M. Tiraboschi: «Il Jobs Act di Renzi irrigidirà ancora di più il mercato del lavoro. L’articolo 18? È già acqua passata»
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