Lo smart working oltre la dimensione contrattuale. Brevi riflessioni sul caso Milano

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Bollettino ADAPT 31 agosto 2020, n. 31

 

Negli ultimi giorni si è scatenato il dibattito riguardante le scelte del Comune di Milano rispetto alla prosecuzione della attività lavorativa dei propri dipendenti in modalità di lavoro agile: come riportato da numerose testate giornalistiche, il Comune avrebbe deciso di limitare l’utilizzo del lavoro agile (50% dei lavoratori che ne hanno fruito nel periodo della chiusura forzata), prevedendo al contempo un regime di rotazione tra i dipendenti pubblici coinvolti. Più che dalla scelta gestionale-organizzativa, l’attenzione del dibattito pubblico verso la decisione milanese deriva dalle forti polemiche suscitate dalle dichiarazioni del sindaco di Milano, Beppe Sala, che a più riprese aveva segnalato la necessità di un ritorno alla vita della città, anche nell’interesse di quelle attività economiche che sulla “Milano degli uffici” si sostentano.

 

Prescindendo da valutazioni di merito sulla posizione del sindaco o sulla scelta di politica gestionale, la vicenda che si commenta si configura come un importante momento di passaggio nella considerazione e nella consapevolezza del futuro del lavoro nell’epoca dello smart working. Tale passaggio consente di apprezzare quanto già in passato sostenuto nella riflessione scientifica sul tema (si veda A. Largier, Le teletravail. Trois projets pour un même objet, Resaux, 2001), ossia che il lavoro da remoto deve essere interpretato facendo attenzione a tre diverse declinazioni dell’interesse sottostante la sua implementazione. Alla dimensione della modalità di organizzazione e svolgimento della prestazione lavorativa nell’ottica della produttività (progetto manageriale-organizzativo) e a quella della conciliazione vita-lavoro e del benessere del lavoratore (progetto di vita individuale), espressamente presi in considerazione dalla legge sul lavoro agile (si veda art. 18, comma 1, l. n. 81/2017), si aggiunge la dimensione del progetto politico di organizzazione della società e, cioè, quello relativo al territorio e chi lo vive.

 

Mentre, tradizionalmente, anche nella riflessione in seno al Comune di Milano – che sul tema è all’avanguardia, a cominciare dall’organizzazione della Giornata (e, poi, Settimana) del lavoro agile – le esternalità sociali della pratica lavorativa erano considerate limitatamente ai positivi effetti sul traffico e sull’inquinamento, la sperimentazione forzata del lavoro agile nell’emergenza pandemica pone al centro il ripensamento stesso della città e dei territori e, di conseguenza, della vita economica e sociale, come è emerso chiaramente nelle doglianze presentate dal mondo della ristorazione e dei pubblici esercizi rispetto alla prosecuzione del lavoro agile. Una prospettiva di questo tipo spaventa necessariamente l’amministratore locale che riconosce che «ripensare la città richiede tempo». Ciononostante, si tratta di una prospettiva che deve essere considerata non soltanto nella dimensione politica, ma anche in quella giuridica (giuslavoristica) e di politica del diritto.

 

Proprio il riferimento al quadro teorico sopra richiamato, consente di ricondurre questa riflessione a quella di dettaglio che sta riguardando il ripensamento, sollecitato dal Ministero del Lavoro; dello statuto giuridico del lavoro agile a fronte delle lezioni apprese grazie al lavoro agile “forzato”. In questo senso, non è difficile comprendere come le istanze proprie del progetto manageriale-organizzativo (ad esempio, massima semplificazione, focalizzazione sui risultati e, in contemporanea, mantenimento di prerogative sulla prestazione di lavoro) e quelle proprie del progetto individuale del lavoratore (tutele contro i rischi da overworking e dell’isolamento del lavoratore, ma anche il possibile riconoscimento di un diritto al lavoro agile, o per lo meno di un right to request, sulla falsariga delle esperienze inglese e olandese) abbiano un peso fondamentale nella delineazione del progetto politico e, allo stesso tempo, come il progetto politico – declinato oggi, per esempio, nella fissazione di quote minime o massime di lavoro agile nella PA – abbiano effetti sulla dimensione individuale e organizzativa.

 

Dinnanzi ad una tale complessità degli interessi – talvolta confliggenti – coinvolti, ad essere esaltata non è tanto la dimensione legale, ma quella contrattual-collettiva. Quest’ultima, sempre più coinvolta nella declinazione aziendale e di settore con riferimento ai progetti individuale e manageriale-organizzativo (si vedano, da ultimo, oltre agli accordi aziendali, il rinnovo del settore alimentare e il Protocollo nelle aziende della filiera TLC), può giocare un ruolo fondamentale anche nella dimensione territoriale per promuovere uno sviluppo concertato e sostenibile del lavoro agile. Al di là dei programmi di incentivazione economica rispetto alla riorganizzazione in lavoro agile, è nella contrattazione sociale territoriale che può svilupparsi un confronto ed una azione di gestione del cambiamento della città e del territorio e del suo futuro economico e produttivo nell’ottica dello smart working. Quello che una certa retorica del c.d. southworking tende a non considerare, è, infatti, l’importanza di azioni concertate affinché il lavoro da remoto non si trasformi nel mero trasferimento degli oneri di organizzazione degli spazi di lavoro sui lavoratori, a fronte di una loro flessibilità sul luogo della prestazione, ma in un progetto di riconfigurazione del territorio – dei suoi luoghi e dei suoi tempi, e, quindi, della sua attrattività – riconfigurazione che passa attraverso infrastrutture materiali e immateriali, dalla rete internet veloce alla presenza di spazi di co-working, da una adeguata rete di trasporto alle competenze necessarie per lo svolgimento della prestazione. Non basta, infatti, spingere per la concessione del lavoro da remoto da una parte all’altra del Paese, peraltro senza considerare i rischi di una prestazione interamente a distanza e che la normativa vigente prescrive un’alternanza tra prestazione in sede e fuori sede. Serve, invece, la condivisione di politiche e prospettive comuni tra i diversi soggetti interessati – aziende, lavoratori, parti sociali, amministrazioni pubbliche e Terzo Settore – anche al fine di gestire transizioni particolarmente onerose o incisive e le tensioni che possono crearsi tra interessi contrapposti.

 

Emanuele Dagnino

Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia

@EmanueleDagnino

 

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