Le «grandi dimissioni» sono già finite. Ma la pandemia ha cambiato il lavoro per sempre*

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Bollettino ADAPT 11 settembre 2023 n. 30
 
A luglio 2023 il livello delle dimissioni negli Stati Uniti è tornato quello del 2019 dopo la marcata crescita del periodo post pandemico. I numeri sono ancora maggiori in alcuni settori, come la manifattura o le costruzioni, ma sono uguali o addirittura inferiori in molti altri, compresi il retail o la ristorazione che negli ultimi anni avevano guidato il fenomeno ormai noto come “grandi dimissioni”. Il calo non è repentino, ma è il risultato di un trend discendente in corso ormai da un anno e consente di svolgere diverse riflessioni. Innanzitutto la coincidenza tra il fenomeno delle dimissioni e il buon andamento dell’economia, in questo caso americana ma potremmo allargare lo sguardo a altri paesi, suggerisce come il fenomeno fosse la risultanza di una certa insoddisfazione maturata durante il periodo pandemico ma resa possibile, nelle sue conseguenze (le dimissioni) da un andamento della domanda di lavoro particolarmente positivo.
 
Negli Stati Uniti infatti il numero di posizioni aperte nella primavera del 2022 era di oltre il 60% maggiore rispetto a quella del gennaio 2020, il tutto in un mercato che è caratterizzato già di per sé da una maggior flessibilità e da una maggior disponibilità alla mobilità territoriale. Molto si è indagato e si indagherà sulle cause di questo fenomeno, che in parte si è verificato anche dopo la Recessione del 2008 (che aveva avuto però una durata maggiore), e troppo spesso si è caduti in banalizzazioni, a partire da quella che vede il lavoro ampiamente declassato tra gli interessi e le priorità delle persone. Quasi che la pandemia non avesse fatto, semmai, comprendere l’urgenza di un cambio in determinate condizioni di lavoro ma allontanato dal lavoro tout court. È più probabile che in questo arco temporale sia avvenuta una grande riallocazione della forza lavoro, secondo dinamiche che ancora oggi non conosciamo bene. Quello che è chiaro è che questo processo si è al momento placato dal punto di vista della crescita delle dimissioni, che non suggeriva quindi un cambio complessivo di atteggiamento nei confronti del lavoro, salvo pensare che dopo una ondata rivendicativa post-pandemia le persone si siano dovute scontrare con la dura realtà della necessità di un lavoro per sopravvivere nelle società contemporanee.
 
È però più interessante e sfidante ragionare su cosa invece può aver spinto a cambiare lavoro, e a cambiarlo consapevolmente lasciando la propria occupazione per una occupazione nuova scelta inevitabilmente per qualche specifica ragione. E le ragioni sono molteplici, e vanno, potremmo dire, da quelle più materiali a quelle più spirituali. In primo luogo c’è un tema salariale ed è dei giorni scorsi la notizia che l’azienda dei trasporti urbani di Boston è riuscita ad aumentare del 350% le candidature per posizioni che andavano deserte aumentando considerevolmente il salario d’accesso. I dati elaborati dall’Upjohn Institute mostrano proprio come i salari e il potere d’acquisto per i nuovi assunti sia considerevolmente cresciuto nel periodo nel quale le dimissioni aumentavano. A conferma che la dimensione economica conta eccome nella scelta di un lavoro e anche nel cambiarlo, e a fronte di una crescita di offerte di lavoro in un momento di forte riapertura del mercato del lavoro successivo al rallentamento generale della pandemia ha generato sicuramente una spinta alla mobilità. Ma non si può ridurre il tutto a una dimensione unicamente economica, sono molte infatti le ricerche che hanno osservato un diverso atteggiamento di molte persone nei confronti delle attività lavorative.
 
Non ci sono solo le dimissioni, si parla anche spesso di quite quitting per identificare il fenomeno che porterebbe i lavoratori, per un insieme variegato di cause, a ridurre al minimo il proprio lavoro così da essere adempienti unicamente a quanto previsto dalle mansioni contrattuali, senza alcun coinvolgimento ulteriore. Altre indagini hanno osservato una rinata attenzione, spinta anche dal grande sconvolgimento di priorità e di abitudini portato dal Covid-19 e in particolare dai lockdown, alla vita privata, vista in contrapposizione rispetto al lavoro. In generale, senza voler ridurre ad aspetti specifici che altro non sono se non manifestazioni sintomatiche di una diagnosi più complessa, si può parlare di una crisi del senso del lavoro contemporaneo, che di certo non nasce con la pandemia ma che essa ha contribuito a far esplodere. Il riferimento è più precisamente alla crisi di un modello di lavoro tipico del tardo capitalismo novecentesco, fondato su modelli di organizzazione del lavoro tipici, e più largamente di organizzazione sociale, che ruotano intorno a quello che Marcuse già negli anni Sessanta definiva “principio di prestazione”, non immaginando ancora i modelli della cultura manageriale che si sarebbero affacciati soprattutto a partire dagli anni Ottanta. Questo si è tradotto nell’adottare la misurazione quantitativa degli esiti della propria prestazione lavorativa come unico criterio di valutazione, e quindi, in un perverso sillogismo, del senso stesso del lavoro.
 
Il lavoro quindi sempre più concepito da attività i cui esiti dipende la realizzazione stessa della persona, e soprattutto la sua legittimazione sociale e all’interno delle organizzazioni. Responsabilità individuale che spesso si traduce nella diffusione di fenomeni di ansia, depressione, bornout imputabili oggettivamente al lavoro ma spesso soggettivamente percepiti come inadeguatezza rispetto a quanto richiesto. In ultimo la riduzione del lavoro come fenomeno individuale, che vede la sua dimensione collettiva non solo di costruzione relazionale del sé, ma anche della società nel suo insieme, venir sempre meno. È probabile che sia anche da questo tipo di lavoro che si fugge, a volte non riuscendoci ma consolandosi con una paga maggiore, a volte trovando modelli organizzativi, turnistiche e responsabilità più sostenibili. Ma non possiamo rimandare il problema alla prossima crisi, anche a causa dello svuotamento demografico della forza lavoro le imprese hanno la necessità di ripensare ai modelli di lavoro, senza sprecare le importanti consapevolezze che il periodo pandemico e la sua coda ci ha fornito.
 

Francesco Seghezzi
Presidente Fondazione ADAPT

Scuola di alta formazione in Transizioni occupazionali e relazioni di lavoro

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*pubblicato anche su Domani, 6 settembre2023

Le «grandi dimissioni» sono già finite. Ma la pandemia ha cambiato il lavoro per sempre*