La “Terza Missione” dell’Università: una via contro la disoccupazione giovanile?

In Europa l’affermazione istituzionale della “Terza Missione” dell’università si può far risalire all’anno 2000, grazie alla Comunicazione della Commissione L’innovazione in un’economia fondata sulla conoscenza. Il documento comunitario, rivolto al Consiglio e al Parlamento europeo, sanciva che «oltre al ruolo da loro svolto tradizionalmente nei campi dell’istruzione e della ricerca, le università dovrebbero assumere una Terza Missione: promuovere la diffusione della conoscenza e delle tecnologie, soprattutto nell’ambiente imprenditoriale locale».

 

L’idea della Terza Missione dell’università nasce nel 1963 grazie a Clark Kerr, rettore dell’Università della California, che coniò il termine “Multiversity” durante una lezione ad Harvard. Per “Multiversity” si intende una comunità universitaria che sappia valorizzare le differenze della società su cui va a incidere e sappia rispondere alle mutevoli esigenze culturali ed economiche di un determinato periodo senza perdere una ampia visione di futuro. La sostituzione di “Multi” ad “Uni” proposta da Kerr era intesa come una rottura con il passato e con le tradizioni accademiche giudicate eccessivamente autoreferenziali e omologanti.

 

Nelle intenzioni di Kerr la parola “Multiversity” voleva sollecitare le università americane ad assumersi la responsabilità di “salvare la società”. Di affrontare la realtà in tutte le sue forme. Erano anni di profondi mutamenti negli Stati Uniti, non solo economici. Anni segnati dalla turbolenta questione dei diritti civili alle persone di colore e l’avvento dei Baby Boomers. Il rettore americano intuì che l’università non poteva mantenersi arroccata nella sua torre d’avorio o si sarebbe ripiegata su sé stessa, perché incapace di rispondere ad una società sempre più “liquida”, così come avrebbe suggerito Zygmunt Bauman più avanti.

 

Per Kerr l’università è una comunità “realista” in grado di servire la società anche guardando ai suoi aspetti industriali, culturali, politici. Una comunità che crea valore di tipo economico: nuovi posti di lavoro, nuove tecnologie. Nel 1963 riassume questo concetto con l’immagine di una “città infinitamente varia” e nel 2001, riportando la sua esperienza accademica nell’opera “The Uses of the University”, riconosce alle università americane la capacità di essere riuscite a diventare centrali nei processi di industrializzazione e di avanzamento tecnologico del paese, dando un impulso decisivo allo sviluppo di un capitale umano all’altezza delle sfide della globalizzazione.

 

In Italia il concetto di Terza Missione è arrivato con molto ritardo, complice una difficoltà di tipo culturale ma anche normativo. Secondo l’ultimo Rapporto Anvur sullo stato dell’università e della ricerca 2013 per Terza Missione si intende: «L’insieme delle attività con le quali le università entrano in interazione diretta con la società». In questo ambito si riconosce come Terza Missione la valorizzazione economica della conoscenza e dunque il ruolo “imprenditoriale” e proattivo delle università. In concreto significa un collegamento più dinamico con gli attori chiave dell’economia (in particolare nei territori), la capacità di consolidare e coltivare la cultura imprenditoriale, la virtuosa “commercializzazione” della ricerca grazie a spin-off, brevetti, partecipazione a cluster innovativi. A sua volta l’industria è chiamata a contribuire a in condivisione il proprio know-how, contestualizzando la ricerca, aiutando l’interazione tra università e territorio.

 

La Terza Missione rappresenta il ponte tra università e industria e afferma la reciproca responsabilità di mondo formativo e mondo produttivo nell’evoluzione e integrazione dei saperi. Ma come si afferma in Italia questa ormai riconosciuta responsabilità reciproca? Nel nostro Paese secondo l’ANVUR si nota negli ultimi anni una maggiore attenzione delle università alle attività di Terza Missione e si registra in particolare un aumento dei contratti di ricerca conto terzi, dei brevetti concessi, delle imprese spin-off. Al Nord la valorizzazione economica è più legata all’industria, al Sud più al turismo e alle attività culturali.

 

Tra il 2004 e il 2010 l’Anvur ha conteggiato 12.636 attività generiche di Terza Missione diffuse in 71 università: in particolare il placement di studenti e laureati, il networking con il territorio, la cooperazione con le imprese. Sono attività relativamente brevi (il 72% dura massimo un anno) che si pongono a supporto dell’occupabilità degli studenti (placement, assistenza alle startup), dello sviluppo culturale del territorio (conferenze, convegni, condivisioni di spazi), della collaborazione con istituzioni e imprese (partnership, intese, protocolli con organizzazioni esterni).

 

Anche in Italia allora le università contribuiscono allo sviluppo dei territori e delle imprese, in aggiunta alla missione di formare studenti competenti e di produrre una ricerca competitiva. L’analisi dei dati tuttavia mette in rilievo la forte eterogeneità tra le iniziative e la loro incongruenza e incollegabilità. Qui risiede la vera distanza tra il nostro Paese e i principali competitor internazionali che hanno volumi di interazioni molto più alti (si pensi alla Germania che brevetta 10 volte in più dell’Italia). Come sta mostrando la Fondazione CRUI, con una indagine ancora in corso sulle collaborazioni università-impresa, manca una armonizzazione dei modelli decisionali e delle procedure, mentre permangono delle prassi burocratiche troppo lunghe e onerose.

 

All’indagine della Fondazione Crui hanno finora risposto 41 università e sono state raccolte 165 esperienze di Terza Missione. Ma la vera novità è l’aver interpellato direttamente le imprese. Le stesse imprese hanno testimoniato i benefici della collaborazione con le università: innovazioni di processo e prodotto, visibilità, allargamento del mercato, formazione del personale. A loro volta le università hanno testimoniato i benefici della collaborazione con le imprese: ricerca applicata, brevettazione, finanziamento esterno, internazionalizzazione, crescita personale.

 

Le collaborazioni tra università e impresa dunque, per quanto non ancora centrali nella crescita del sistema Paese, sono comunque una realtà frammentata ma con forti potenzialità. Nonostante politiche nazionali spesso insufficienti (si pensi allo stallo sui dottorati industriali) e alcuni rigidi sistemi di governance (si pensi alla poca autonomia finanziaria degli atenei) si è instaurata, in molti casi virtuosi, una fiducia reciproca tra università e imprese. E su questa fiducia si giocherà la Terza Missione (possibile!) dell’università italiana contro la disoccupazione giovanile.

 

Alfonso Balsamo

Scuola internazionale di Dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro

ADAPT-CQIA, Università degli Studi di Bergamo

@Alfonso_Balsamo

 

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