La Grande Trasformazione del Lavoro – La strategia comunicativa degli attori politici e sindacali nella Grande Trasformazione del lavoro

Dalle iniziali schermaglie tattiche lo scontro tra la Cgil e Matteo Renzi si è fatto ora frontale e tutto giocato in chiave mediatica. E su questo terreno il confronto pare davvero impietoso relegando Susanna Camusso e il principale sindacato italiano al ruolo di una gloriosa specie in via di estinzione. Un gigante dai piedi di argilla, appesantito dagli anni e dagli errori del passato a cui replica colpo su colpo un giovane e dinamico Presidente del Consiglio che non ha paura di dire quello che molti pensano come è dimostrato dal drastico calo di consensi del sindacato nella società e tra gli stessi lavoratori.
 


 
Il sindacato pare invero chiuso in una logica autoreferenziale che non gli consente di leggere la realtà e comunicare così gli importanti valori che incarna e rappresenta. Di tutt’altro peso pare invece la strategia di Renzi che non pare certo improvvisata e che introduce anche nel confronto pubblico italiano strumenti da tempo consolidati in altri Paesi.
 
Si dice infatti che le grandi narrazioni culturali ed ideologiche del novecento mostrino di non suscitare più il coinvolgimento sperato, e una condivisa sentenza sociologica riconosce l’incapacità contemporanea del lavoro di creare identità e comunità. L’aggregazione del consenso politico deve quindi seguire altre vie, esattamente come hanno dimostrato illustri predecessori di Renzi, da Bush a Obama, così come le nuove tecniche della pubblicità: piccole narrazioni esemplari, storytelling.
 
Non è un caso che il ricorso a storie individuali più marcato che si ricordi nei discorsi di Renzi sia avvenuto nel suo primo videomessaggio indipendente da una campagna strutturata. Si tratta dello strumento più in grado di attrarre seguito nazionale, ma a più rapido declino di utilità marginale. Detto in altri termini, roba da centellinare. Eppure il premier è apparso sicurissimo di sè, ormai cosciente dell’efficacia degli strumenti narrativi in relazione ai temi del lavoro.
 
E così è facile immaginarsi quale ghiotta occasione sia comparsa agli occhi di Renzi (o del suo speechwriter, di cui l’esistenza continua ad essere negata) quando si è sentito paragonare dalla sua più abituale avversaria sindacale alla figura di Margareth Tatcher. Un tentativo che ricorda la rievocazione agostana dell’autunno caldo: un altro maldestro appello alla scarsa memoria degli italiani e un vero e proprio invito a nozze per l’accusato.
 
A quanto si è visto Renzi sa bene altre due cose. Primo: le singole storie esemplari estendono i valori che incorporano all’interno dei gruppi che si riconoscono in una struttura drammatica comune. Secondo: le storie colpiscono emozionalmente, cortocircuitano l’astrattezza delle argomentazioni sugli esempi concreti persuadendo.
 
Nello specifico del discorso in oggetto l’effetto ricercato è quindi quello di riunire in un’appartenenza comune tre categorie tradizionalmente separate. I lavoratori autonomi, i cosiddetti “atipici” o “precari” e gli imprenditori si ritrovano alla fine dell’appello iniziale riuniti attorno ai valori della solidarietà e dell’equità, contrapposti a quel liberismo spinto inteso dalla Camusso.
 
Così l’orizzonte auspicato dell’azione di Governo può riassumersi nella parola “giustizia”: un tipico concetto contestato, come lo definirebbe Lakoff, buono per tutte le stagioni e per tutte le fazioni, per mettere d’accordo l’uditorio in assenza di contradditorio.
 
Compaginato in questo modo il pubblico, Renzi si dirige sicuro all’attacco frontale del sindacato permettendosi persino una preterizione (dico di non dire per dire) azzardatissima: «A quei sindacati che hanno deciso di contestarci io non chiedo almeno il tempo di presentare le proposte, prima di fare le polemiche (nessuno si ricorda che Renzi parla di jobs act dal marzo 2013?), ma chiedo “Dove eravate in questi anni quando si è prodotta la più grande ingiustizia per l’italia?’».
 
Una volta compreso che Renzi aveva abilmente costruito le coordinate dei “dimenticati dal sindacato” con gli stessi valori storici della sinistra, la Cgil ha deciso di affidare la propria replica alla rete di Twitter lanciando l’hashtagh #fattinonideologia. I tweet perentori da pillole-manifesto hanno però trascurato completamente la forza dell’impostazione narratologica da fronteggiare.
 
Se ne è resa invece perfettamente conto Ilaria Lani, la giovane coordinatrice della campagna Giovani NON+ disposti a tutto della Cgil, e curatrice del libro Organizziamoci! che sul suo blog ha risposto a Renzi con la stessa identica moneta, fatta di micronarrazioni, emotività e valori.
 
«il 9 aprile del 2011 eravamo in piazza, migliaia di giovani e precari, a gridare “Il nostro tempo è adesso” e a rivendicare il diritto universale alla maternità, all’equo compenso, alla formazione, alla indennità di disoccupazione, ad avere contratti decenti. In piazza, quel giorno, la CGIL c’era, ma Renzi non lo abbiamo proprio visto.
 
A me però a sta a cuore anche la sorte di Filippo operaio RSU in una fabbrica di Capalle che si sta battendo per difendere la dignità sua e dei suoi colleghi, a fronte della volontà dell’azienda di installare videocamere che lo controllino a distanza mentre lavora. Grazie allo Statuto dei Lavoratori Filippo e i suoi colleghi sono salvi dal ricatto dell’azienda, infatti l’ispettorato del lavoro gli ha dato ragione e le telecamere non potranno riprenderli mentre lavorano.
 
A me sta a cuore anche la sorte di Stefania, impiegata, che dopo una lunga assenza per una malattia grave è stata demansionata e con una vertenza sindacale, grazie allo Statuto dei Lavoratori, ha potuto riavere il suo inquadramento e il suo stipendio, ed in fondo la sua dignità».
 
Il dibattito tra Renzi e la Cgil, riassunto semplicisticamente nelle opposte alternative “tutti in serie A” o “tutti in serie B”, trascura completamente la materia fondamentale sulla quale dovrebbero concentrarsi i riformatori del lavoro. E’ come assistere alla continua calata di un calco antico sul panorama delle contemporanee esigenze organizzative: una combinazione dove sopravvivono evidenti vuoti di produttività. Tuttavia l’episodio è significativo e segna l’emergere anche in Italia di una tendenza comunicativa politica che sarà sempre più difficile da trascurare in futuro, soprattutto quando si tratterà di creare consenso attorno ai particolari visioni del lavoro.
 

Francesco Nespoli

ADAPT Research fellow

@franznespoli

 


* Pubblicato anche in Il Sole 24 Ore, Nòva (Il blog di ADAPT) il 23 settembre 2014.
 
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