La rappresentanza tra tradizione e innovazione/3 – La crisi dello Stato moderno e il progetto fascista: spunti per la contemporaneità

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Bollettino ADAPT 6 dicembre 2021, n. 43
 
Nella sempre complessa trama di rapporti tra Stato e rappresentanza – ben evidenziata anche dalle vicende legate alle recenti iniziative governative riguardanti fisco e pensioni – un elemento decisivo per comprenderne le logiche e, soprattutto, gli equilibri che di volta in volta si instaurano è quello socioeconomico: come cioè le istituzioni richiamate riescono a dare risposte concrete ai bisogni emergenti dalla realtà sociale, e da quella del lavoro in particolare. I mutamenti e le trasformazioni che hanno impattano, con conseguenze sul piano sociale ed economico, sulla vita delle persone e sui contesti di lavoro hanno storicamente determinato il modificarsi di questo equilibrio: basti pensare alla I rivoluzione industriale, a seguito della quale il sindacato nasce con l’obiettivo di dare voce – ed adeguata rappresentanza – a gruppi sociali i cui bisogni non trovavano risposte nell’orizzonte del solo Stato moderno. Oppure al tentativo, in direzione contraria, di alcune recenti riforme del lavoro, caratterizzate da una logica fortemente accentratrice a detrimento dell’opera – e del ruolo – dei corpi intermedi in generale e della rappresentanza in particolare.
 
Nello studio della storia azzardare parallelismi tra diversi contesti ed epoche è quanto meno rischioso. È però possibile, andando ad approfondire il passato e ponendosi in una posizione di partecipe ascolto nei confronti di quanto ancora ha da dirci, individuare alcuni spunti – se non vere e proprie indicazioni – che aiutano (come abbiamo già provato ad evidenziare in un recente articolo inserito in questa serie) a guardare con maggiore lucidità anche la stessa contemporaneità. In questo senso, la nascita del fenomeno corporativo fascista – ben distinto da quello premoderno, anch’esso approfondito in un contributo pubblicato su questo Bollettino e mirante a superare gli equivoci generati dall’equiparazione con le corporazioni del ventennio – può essere d’aiuto per meglio comprendere le dinamiche e le logiche caratterizzano i sempre mutevoli rapporti e i complessi equilibri tra Stato e rappresentanza.
 
È già stata ricordata la centralità del fattore socioeconomico quale vettore scatenante potenziali momenti di crisi tra le istituzioni richiamate. L’esperienza corporativa fascista, in particolare, ci dice che alla base di diverse idee di rappresentanza sta anche una diversa idea di uomo – cittadino – persona. Diversi ideologhi del corporativismo fascista ne giustificarono le caratteristiche e il ruolo all’interno della società italiana a partire dal primato dell’etica sull’economia, e per superare l’«individualismo demoliberale» che caratterizzava l’economia moderna, perché, secondo le stesse parole di Bottai (dal 1929 Ministro delle Corporazioni) : «Crediamo, cioè, che all’individuo isolato, lanciato senza limite o controllo sulla strada della conquista della ricchezza (l’individuo dell’economia classica) debba sostituirsi l’uomo, che vive nello Stato e nel mondo, e sa che il proprio benessere è inquadrato nel benessere dello Stato e del mondo, ed è, quindi, più aderente alla realtà ed anche più sostanzialmente libero». In gioco quindi non vi è esclusivamente la contrapposizione tra modelli economici o tra teorie politiche, ma tra diverse concezioni antropologiche riguardanti, in particolare, il ruolo della persona all’interno della società.
 
Ed è nel contesto di una crisi di un preciso modello sociale, politico ed economico (e quindi anche antropologico) che si sviluppano le riflessioni degli ideologi del corporativismo: quella dello Stato moderno. In questo senso, l’ideologia corporativa affonda le sue radici in un periodo precedente a quello della nascita della dittatura fascista. Per quanto, infatti, riguarda la distanza tra lo Stato e la società, quello che emerge chiaramente con la crisi ricordata è l’impossibilità di far confluire nella logica dello Stato moderno, la cui architettura poggiava sull’individualismo e sulla concentrazione del potere in mano ad un “centro” ben definito, le variegate esperienze di rappresentanza – e il loro valore politico – che pure si andavano affermando al termine del XIX secolo (come il già ricordato sindacato). In altre parole, non si poteva più pensare come ottimale e funzionante un modello basato sulla relazione diretta tra individuo e Stato, quest’ultimo avente il compito di stabilire regole di convivenza comuni – e poco altro. Tra individuo e Stato erano sorti e si stavano affermando con forza quelli che poi saranno definiti “corpi intermedi”, quali soggetti portatori di interessi collettivi la cui sintesi non era un’operazione risolvibile in astratto, pensando cioè a queste conformazioni sociali quali la semplice somma di individui atomisticamente intesi. Ciò che nasceva grazie a queste aggregazioni era una forma di rappresentanza – anche politica – dal basso, irriducibile alla tradizionale sintesi statale moderna. Da qui tutta una serie di nuove tensioni tra rappresentanza degli interessi e potere Statale, e la ricerca di un nuovo equilibrio.
 
Non solo. A questa dinamica si aggiunge un altro fattore determinante: la separazione tra politica ed economia. La travolgente rapidità con cui la prima rivoluzione industriale scardina l’ordine sul quale si era basata la società precapitalistica fa sì che le esigenze nate dal mondo economico non trovino adeguata rappresentanza politica ma, soprattutto, non trovino nella politica – cioè nello Stato – non solo un interlocutore, ma un regolatore. Come regolare, come controllare una materia così malleabile, come trattenere tra confini precisi i bordi di una trasformazione che andava invece ad impattare ogni cosa? Da qui, quindi, un’altra divisione ancora: se l’economia va ad una velocità diversa da quella della politica (statale), quest’ultima rinuncia – per evidente incapacità – ad un effettivo controllo della prima, affidandolo a soggetti delegati ma esclusivamente economici, limitandosi quindi ad intervenire in quella che noi definiremmo politica sociale, secondo una logica compensativa e distributiva, non di concreto dialogo per l’integrazione tra questi aspetti così, apparentemente, irriducibilmente contrapposti.
 
E da qui il corporativismo: l’esigenza cioè non tanto di un controllo totalizzante sulla vita economica, ma come risposta ad un fatto storico: la crisi dello Stato moderno scaturita dai mutamenti sociali ed economici che stavano attraverso l’Europa del secondo XIX secolo. Torna così centrale la riflessione sulla rappresentanza degli interessi – per superare la contrapposizione tra Stato e società, ma torna centrale anche l’obiettivo di far dialogare economica e politica, sfidando la seconda ad un coordinamento della prima. Senza qui approfondire la costante attenzione di Mussolini al fenomeno sindacale, che precede anche l’instaurazione del regime, vale la pena chiedersi come, concretamente, si realizza l’equilibrio tra economia e politica, tra rappresentanza e Stato in epoca fascista.
 
Per prima cosa, come ha ricordato Ornaghi in un contributo ormai risalente (L. Ornaghi, La «Nuova Scienza» Nell’età Fascista: Economia e politica alle origini del Corporativismo, in Il Politico, 1982, 3, pp. 479-49), bisogna fare attenzione a non far coincidere la riflessione corporativa fascista con le corporazioni poi effettivamente istituite anche se, ovviamente, non è possibile negare che «In effetti, che il corporativismo abbia costituito il cuore dell’ideologia fascista (o – come ebbe a dire Ernesto Rossi – uno dei più riusciti «bluff» mussoliniani), è considerazione probabilmente inconfutabile». Anche tra i pensatori fascisti, vi era una spaccatura: infatti il «termine “corporativismo” indica infatti tanto il tentativo dello Stato di ‘ incorporare “i gruppi sociali (al fine di integrarli sempre più formalmente, così, all’interno dell’organizzazione statale), quanto lo sforzo dei gruppi sociali di “accorparsi” in aggregazioni stabilmente organizzate (così da sottrarsi, in tal modo, all’incapsulamento entro uno Stato totale)”». Ovviamente questa è una polarizzazione non di poco conto. Una polarizzazione che, sempre secondo Ornaghi, ha permesso di evitare una banale sovrapposizione tra fascismo e statalismo, a favore invece di una costante tensione verso un punto di equilibrio tra queste impostazioni teoriche. Ed è in fondo una polarizzazione di estrema attualità. La forza della rappresentanza sta nella sua autonomia dal potere Statale, oppure per acquisire nuova linfa dovrebbe, invece, rientrare nell’alveo di quest’ultimo con maggiori compiti (e poteri) regolatori?
 
Elemento determinate per comprendere le origini della riflessione corporativa fascista, e che determina il culmine della crisi dello Stato moderno, è la Prima guerra mondiale. Durante questo tragico evento, il ruolo dello Stato anche nell’economia torna centrale. Nasce quindi l’esigenza – secondo i corporativisti – di una “nuova scienza”, di un nuovo modo di pensare ai rapporti tra Stato, economia, società. Politica ed economia arrivano a coincidere, nel modello corporativo, nel compito di organizzazione della società, compito imprescindibile dato il fallimento del modello liberale e le sfide poste dalla situazione post-bellica. Infatti “l’astratta uguaglianza” – per citare Arena – del sistema liberale classico, mostrando la sua incapacità sul piano economico, suggerisce un ripensamento della società in quanto tale: Costamagna ad esempio nota che «I problemi dello Stato e dell’Economia appaiono nella pratica inestricabilmente connessi. Il tipo del cosiddetto Stato Moderno è dovunque in crisi, i suoi presupposti concettuali e le sue forme non corrispondendo più alle esigenze dell’organizzazione sociale. L’economia liberista è in liquidazione come il costituzionalismo liberale».
 
Il fascismo realizzerà quest’opera di architettura istituzionale grazie alla riduzione della dimensione della rappresentanza alla sfera della politica e quest’ultima a quella del partito unico, il quale coincideva poi con lo stesso Stato. La rappresentanza perderà la sua autonomia diluendosi in organicismo nella quale la sua funzione propria è tale solo in raccordo con il centro politico del sistema, e quindi con l’ordine dittatoriale fascista. L’equilibrio creato, evidente anche nelle diverse difficoltà “pratiche” sorte con l’effettiva nascita e gestione delle corporazioni, è quindi astratto, e basato su una violenta riduzione e ad un brutale appiattimento sul potere partitico, prima ancora che politico.
 
Un ulteriore punto da non dimenticare quando si tratta delle corporazioni fasciste riguarda la loro stessa struttura: l’obiettivo della “ricomposizione degli interessi” arriva infatti ad auspicare la costruzione di spazi di rappresentanza capaci di integrare interessi dei lavoratori e dei datori di lavoro. Ovviamente, tale opera di sintesi avrebbe potuto favorire anche una loro più efficace governabilità, in coerenza – almeno teorica – con il pensiero di Mussolini: «Chi dice lavoro dice borghesia produttiva e classi lavoratrici della città e dei campi. Non privilegi alla prima, non privilegi alle ultime, ma tutela di tutti gli interessi che si armonizzano con quelli della produzione e della nazione». Quest’opera di armonizzazione diventa possibile nel momento in cui le controparti si uniscono in un tutt’uno, all’interno del più ampio – perché totalizzante – organismo dello Stato fascista.
 
Sono Confindustria e Confagricoltura, in particolare, ad opporsi – almeno inizialmente – a questo tentativo di “inglobazione”, per ragioni squisitamente politiche: non volevano che il loro potere fosse considerato “pari” a quello dei sindacati dei lavoratori, che il fascismo “conquistò” invece più velocemente. Ma l’abolizione delle distanze tra padroni e lavoratori era necessaria per il progetto politico fascista, e ne svela la vera concezione – al di là della pur sempre vivace discussione teorica – della rappresentanza: un’articolazione dello Stato, senza autonomia funzionale o politica, dedicata alla programmazione e al controllo dell’economia per conto e secondo quanto indicato dallo Stato fascista.
 
Paradossalmente si ripropone, in questo tentativo organicista fascista, quell’impossibilità da cui pure la riflessione corporativa era nata: l’impossibilità cioè di far coincidere economia, società, Stato e politica. Un’impossibilità determinata sia dalle stesse esigenze legate a bisogni economici o sociali, ma anche al senso della stessa rappresentanza: inglobato nel potere Statale, perde il suo senso “politico” dal quale pure era nata la riflessione sul fenomeno corporativo nel tardo Ottocento. Questa costruzione teorica ebbe, quindi, vita breve e compiti assai limitati, risultando troppo lontana da quella realtà che pure mirava a rappresentare e da quei fenomeni che avrebbe dovuto, almeno idealmente, governare e controllare.
 
Quello che questa breve ricostruzione ci consegna è un’indicazione molto chiara: le trasformazioni che abitano i diversi periodi storici evidenziano l’imprescindibile ruolo della rappresentanza nel costruire un ordine sociale ed economico che non può poggiare esclusivamente sul potere dello Stato, ma che richiede corpi intermedi capaci di farsi carico di questo compito – e consapevoli di esso. Allo stesso tempo, tale fondamentale attività collaborativa non deve portare ad un’identificazione tra i due piani, ad un assorbimento cioè della rappresentanza all’interno dell’organismo statale, pena la perdita del suo stesso senso e del suo scopo: contribuire, dal basso e dando voce e “corpo” a specifici interessi e bisogni, all’edificazione di una società più giusta, capace di far fronte alle sfide che – anche oggi – sono legate all’adozione di nuovi modelli economici, sociali, e culturali.
 
Matteo Colombo

ADAPT Senior Research Fellow
@colombo_mat

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