La novità culturale e la sfida operativa dell’alternanza scuola lavoro della Buona Scuola

Lo scorso 8 ottobre è stata recapitata a tutte le scuole secondarie di secondo grado italiane la Guida operativa per le attività di alternanza scuola lavoro redatta dal Dipartimento per il sistema educativo di istruzione e formazione del Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca.

Nonostante la dimensione del manuale, tutt’altro che “operativa” (92 pagine!), con questo atto il Ministero ha inteso permettere alle scuole di iniziare la programmazione delle attività in alternanza dei propri studenti.

 

I commi dal 33 al 43 dell’articolo 1 della legge 13 luglio 2015, n.107, recante «Riforma del sistema nazionale di istruzione e formazione e delega per il riordino delle disposizioni legislative vigenti», meglio nota come «La Buona Scuola», hanno strutturato la metodologia didattica della alternanza scuola-lavoro nell’offerta formativa di tutti gli indirizzi di studio della scuola secondaria di secondo grado a partire già dall’anno scolastico appena iniziato. Concretamente, vuole dire che tutti gli studenti italiani, a partire dalle classi terze, dovranno svolgere un numero di ore di alternanza pari a 200 nei licei e 400 negli istituti tecnici e professionali (la legge nazionale non può invece intervenire sulla Istruzione e Formazione Professionale di competenza regionale). Le esperienze di alternanza potranno essere realizzate anche durante la sospensione delle attività didattiche, all’estero e mediante il dispositivo didattico dell’impresa formativa simulata.

 

Si tratta di una novità da non sottovalutare, sia dal punto di vista culturale che da quello gestionale/operativo.

 

Circa il primo aspetto, va realizzandosi l’intuizione avuta dal Legislatore italiano già nel 2003, quando, all’articolo 4 della legge 28 marzo 2003, n. 53 (c.d. Legge Moratti) si prevedeva che l’intera formazione dai 15 a 18 anni potesse essere svolta «attraverso l’alternanza di periodi di studio e di lavoro, sotto la responsabilità dell’istituzione scolastica, sulla base di convenzioni con imprese o con le rispettive associazioni di rappresentanza o con le camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura, o con enti, pubblici e privati, inclusi quelli del terzo settore, disponibili ad accogliere gli studenti per periodi di tirocinio che non costituiscono rapporto individuale di lavoro». Il successivo decreto legislativo delegato n. 77 del 15 aprile 2005 chiarì la natura profonda della alternanza, da intendersi non come uno “strumento”, ma come una vera e propria «modalità di realizzazione dei corsi del secondo ciclo, sia nel sistema dei licei, sia nel sistema dell’istruzione e della formazione professionale, per assicurare ai giovani, oltre alle conoscenze di base, l’acquisizione di competenze spendibili nel mercato del lavoro» (articolo 1).

Sono norme scritte ben prima della crisi economica, quando ancora il sistema duale tedesco non era la leggenda mediatica attuale e le istituzioni europee non avevano colorato di funzionalizzazione economica la formazione situata o on the job. Pur partendo dalle storture della dominante retorica sulla formazione da orientare al mercato del lavoro, la Buona Scuola ha il merito di riscoprire il paradigma pedagogico dell’alternanza, che sospinge a tal punto da farlo diventare esperienza obbligatoria per tutti.

 

A questo obbligo è connessa la seconda considerazione da farsi, quella gestionale/operativa. I dati del monitoraggio annuale effettuato dall’INDIRE ci dicono che oggi la quota di scuole superiori italiane che attiva percorsi di alternanza scuola-lavoro è ancora limitata (43,5%); tra queste solo il 13,3% sono licei. In totale i ragazzi coinvolti superano di poco le 200.000 unità, che è comunque meno dell’11% della popolazione scolastica complessiva. Le aziende ospitanti sono circa 55.000 e i percorsi durano mediamente 97,9 ore di cui 25,7 in aula e 72,1 fuori da scuola, per un totale di 12 giorni.

 

A partire da questo anno scolastico i numeri dovranno improvvisamente decuplicare: per rendere possibile una solida esperienza di alternanza per tutti serviranno più imprese, una disponibilità all’ospitalità molto maggiore (come numero di ore), un profondo ripensamento del calendario e dell’offerta formativa delle scuole. Indipendentemente dalle buone intenzioni, le scuole ce la faranno? Il Governo ha stanziato 100 milioni di euro annui per finanziare l’organizzazione delle attività (nella quale rientrerà anche l’erogazione di corsi di formazione in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro), l’assistenza tecnica e il monitoraggio dei percorsi; dividendo la cifra per il numero di scuole si capisce che il fondo è ancora troppo esiguo.

 

Ai Dirigenti scolastici spetta però da subito il difficile compito di individuare le imprese e gli enti pubblici e privati disponibili per l’attivazione dei percorsi, anche in carenza del Registro nazionale per l’alternanza scuola lavoro da costituirsi presso le Camere di commercio per censire tutte le imprese ed enti pubblici e privati disponibili ad accogliere gli studenti, una sorta di “menù” al quale in futuro le scuole potranno accedere per trovare le sedi di scambio più coerenti con i percorsi di studio dei ragazzi.

 

Le imprese non sono ovviamente obbligate da alcuna norma ad ospitare giovani studenti nelle proprie strutture. Per questo sarebbe forse utile la pubblicazione anche di una Guida operativa per il tessuto produttivo (non certo di 92 pagine, ma nella forma di decalogo comprensibile e di facile lettura, da scriversi con le parti sociali). Se gli imprenditori, infatti, pur credendo nel metodo dell’alternanza, non avranno certezza di semplicità sulle procedure per la stipulazione delle necessarie convenzioni (nella Guida per le Scuole ci sono dei fac-simile che paiono ancora piuttosto “burocratici”) e chiarezza circa le proprie responsabilità, difficilmente cederanno alla pressione dei tanti dirigenti scolastici che già si sono attivati per trovare le sedi di tirocinio dei propri studenti.

 

È evidente che senza le imprese, senza un raccordo logico tra tipo di impresa e curriculo del giovane, senza un ripensamento profondo di tutto il calendario scolastico del triennio conclusivo in funzione dell’alternanza e, quindi, senza una reale disponibilità dei docenti a riprogrammare corsi e attività, l’alternanza della Buona Scuola finirebbe per essere solo un “super laboratorio” distante dal mondo del lavoro o la replicazione, solo parzialmente efficace, del modello dell’impresa formativa simulata in contesti poco vocati alla commercializzazione dei prodotti di studio o, da ultimo, la somma di tanti tirocini svolti nel periodo estivo per non disturbare l’ordinaria organizzazione didattica.

 

Governo, docenti, imprese e parti sociali devono invece impegnarsi perché possa realizzarsi quanto la «Guida operativa» appena pubblicata recita a pagina 12: «Il modello dell’alternanza scuola lavoro intende non solo superare l’idea di disgiunzione tra momento formativo ed operativo, ma si pone l’obiettivo più incisivo di accrescere la motivazione allo studio e di guidare i giovani nella scoperta delle vocazioni personali, degli interessi e degli stili di apprendimento individuali, arricchendo la formazione scolastica con l’acquisizione di competenze maturate “sul campo”. Tale condizione garantisce un vantaggio competitivo rispetto a quanti circoscrivono la propria formazione al solo contesto teorico, offrendo nuovi stimoli all’apprendimento e valore aggiunto alla formazione della persona». L’alternanza correttamente progettata e vissuta, quindi, permette non solo di essere più competitivi sul mercato del lavoro, ma prima ancora la formazione integrale della persona, senza la quale è impossibile qualsiasi forma di occupabilità.

 

Emmanuele Massagli

Presidente ADAPT

@EMassagli

 

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