La controversa natura ed efficacia giuridica della vigente disciplina in materia di telelavoro nel settore privato

Si discute molto, in questo periodo, di lavoro agile o smart working, rimarcandone la diversità concettuale (e normativa) rispetto al telelavoro.

 

A questo proposito può essere un utile esercizio quello di esaminare la natura e l’efficacia giuridica della vigente disciplina nazionale del telelavoro nel settore privato.

 

Disciplina, questa, che – va subito detto – è del tutto sui generis dal momento che:

 

  1. a) trae origine da un Accordo quadro europeo del 2002, accordo che può essere considerato quale fonte di soft law del diritto dell’Unione Europea ma non anche quale fonte in senso stretto ex 288 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (TFUE);

 

  1. b) ha natura (prevalentemente) contrattuale, atteso che in Italia l’Accordo quadro è stato attuato, con lievi aggiustamenti, dall’Accordo interconfederale del 9 giugno 2004, concluso dalle principali organizzazioni datoriali e sindacali “cross-industry”, a sua volta implementato, con integrazioni e/o adattamenti, a livello settoriale da diversi CCNL, i quali spesso rinviano alla contrattazione aziendale per la disciplina di specifici aspetti;

 

  1. c) non mancano disposizioni di legge che, seppur non in modo sistematico ma limitatamente a specifici aspetti, fanno esplicito riferimento al telelavoro (vd., ad es., in materia di sicurezza l’art. 3, comma 10 d.lgs. n. 81/2008 e in materia di orario di lavoro l’ 17, comma 5 d.lgs. n. 66/2003).

 

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Come è noto, il telelavoro – che non è un nuovo tipo contrattuale ma una forma di organizzazione e/o una particolare modalità di svolgimento di un rapporto di lavoro – ha trovato una disciplina specifica (seppur “di principio”) nell’Accordo quadro europeo stipulato in data 16 luglio 2002 da ETUC, UNICE/UEAPME e CEEP, ossia le c.d. parti sociali europee.

 

La peculiarità di tale accordo collettivo – che lo contraddistingue da altri accordi europei altrettanto noti in materia di congedi parentali (1995 e 2009), part-time (1997) e lavoro a tempo determinato (1999) – risiede nel fatto che esso non è stato attuato mediante direttiva UE, come sarebbe stato, in linea di principio, possibile ai sensi del previgente art. 139, par. 2 del Trattato che istituisce la Comunità Europea (TCE), attuale art. 155, par. 2 TFUE, ma è stato rimesso – per espressa volontà delle parti firmatarie – all’implementazione “autonoma”, ossia è stato recepito in Italia, come in molti altri Stati membri, dalle stesse organizzazioni sindacali e datoriali nazionali[1].

 

Al fine di inquadrare correttamente la questione relativa alla natura e all’efficacia degli accordi europei non “recepiti” in una direttiva UE (questione, questa, alquanto dibattuta in dottrina ed ancora aperta, stante la mancanza – a quanto risulta – di decisioni giurisprudenziali sul punto), punto), pare utile chiarire quali esiti negoziali le parti sociali possano perseguire a livello europeo.

 

Gli accordi collettivi europei possono essere suddivisi in:

 

  1. a) accordi “statutory”, attuati dalle stesse Istituzioni europee, laddove ricorrano i presupposti di cui all’attuale 155, par. 2 TFUE, mediante una fonte tipica dell’ordinamento UE (nella prassi, direttiva);

 

  1. b) accordi “autonomi”, ossia quelli implementati dalle parti sociali nazionali o finanche dal legislatore nazionale “secondo le procedure e le prassi proprie delle parti sociali e degli Stati membri” (art. 155, par. 2 TFUE);

 

  1. c) “volontari”, e cioè quelli conclusi all’esito di negoziazioni spontaneamente avviate dalle parti sociali europee (e che poi potrebbero essere, in linea di principio, attuati da una direttiva, laddove ne ricorrano i presupposti e la volontà politica degli attori coinvolti, ovvero “autonomamente” dalle parti sociali o dal legislatore nazionale, vd. le precedenti lett. a) e b).

 

I c.d. collective agreements self-initiated sono, infatti, quegli accordi raggiunti a seguito di un’iniziativa intrapresa volontariamente dalle parti sociali europee, ossia senza che vi sia stato un espresso invito della Commissione a negoziare nell’ambito delle consultazioni di cui all’art. 154 TFUE.

 

Al riguardo, occorre far presente che, ai sensi del richiamato art. 154 TFUE, le consultazioni delle parti sociali a livello europeo, obbligatorie ogniqualvolta le Istituzioni UE intendano presentare proposte nel settore della “politica sociale” (art. 153 TFUE), si articolano in due fasi: in un primo momento, le parti sociali sono consultate «sul possibile orientamento» da imprimere ad un’eventuale azione dell’Unione Europea in materia sociale; in un secondo tempo, nel caso in cui la Commissione abbia ritenuto opportuno intraprendere un’iniziativa legislativa, le parti sociali sono sentite «sul contenuto» della proposta elaborata.

 

E’ importante evidenziare che, nel caso in cui le parti sociali europee intendano avviare le negoziazioni, vi sarà – secondo l’interpretazione del Trattato resa dalla stessa Commissione – una sospensione temporanea (9 mesi salvo proroga) del potere di iniziativa legislativa istituzionale.

Ciò a conferma della rilevanza e della priorità riconosciuta, a livello europeo, alla fonte negoziale anche a scapito di quella eteronoma (si parla, in tal senso, di dialogo sociale europeo come forma di governance “autonoma” o “negoziata” a seconda che le parti sociali pervengano ad un esito negoziale oppure si limitino a coadiuvare le Istituzioni nella iniziativa legislativa intrapresa).

 

Tornando all’Accordo quadro europeo sul telelavoro, esso si può, pertanto, definire “volontario” solo nel senso che non è stato attuato mediante direttiva UE, ma non anche nel senso di “self-initiated”, atteso che esso è stato raggiunto, come espressamente affermato nella premessa dello stesso Accordo quadro europeo del 2002, “a seguito dell’invito rivolto alle parti sociali dalla Commissione delle Comunità europee – nell’ambito della seconda fase della consultazione relativa alla modernizzazione ed al miglioramento dei rapporti di lavoro – ad avviare negoziati in tema di telelavoro(c.d. contrattazione “indotta”).

Circostanza, questa, che può sembrare “di contorno” ma in realtà ha una sua rilevanza dal momento che manifesta uno specifico interesse delle Istituzioni europee a pervenire, in materia di telelavoro, ad una disciplina “di principio” comune in tutti gli Stati membri volta anche a raggiungere gli obiettivi indicati dalla stessa Commissione.

 

Peraltro, in una Comunicazione del 2004 (COM (2004) 557) la Commissione ha rivendicato, con riguardo agli accordi autonomi “indotti”, un “ruolo specifico” che consiste, in sintesi, in un controllo istituzionale sull’attuazione di tali esiti negoziali al fine di “valutare la misura in cui esso abbia contribuito al raggiungimento degli obbiettivi comunitaried eventualmente, in caso di esito negativo, di considerare la possibilità di introdurre una proposta di atto legislativo, fermo restando, comunque, il potere di esercitare “in qualsiasi momento” il suo diritto di iniziativa[2].

 

Detto ciò, la questione relativa al regime giuridico degli accordi autonomi europei, in quanto strettamente connessa alla dimensione multilivello degli attuali ordinamenti giuridici, andrebbe affrontata distinguendo il piano nazionale da quello europeo.

 

Sebbene non manchi in letteratura chi ha sostenuto la tesi della irrilevanza degli autonomous collective agreements[3], secondo la dottrina maggioritaria, invece, tali accordi avrebbero, a livello europeo, rilevanza ed efficacia giuridica (di soft law)[4].

 

A livello nazionale, invece, gli accordi autonomi sarebbero privi di efficacia “esterna”, intesa quale fonte produttiva di effetti nei confronti di soggetti terzi rispetto alle parti negoziali, ma avrebbero, ove previsto nei rispettivi Statuti, una efficacia “interna”, intesa quale vincolo, endosindacale appunto, a cui devono attenersi le organizzazioni sindacali e datoriali associate alle parti sociali europee firmatarie dell’accordo.

Pertanto, l’accordo autonomo europeo, una volta attuato a livello nazionale, avrebbe la stessa efficacia giuridica dell’atto di trasposizione utilizzato (in Italia, contratto o accordo collettivo di “diritto comune” laddove l’accordo venga attuato dalle parti sociali nazionali).

 

Secondo una diversa opinione, tali accordi avrebbero addirittura efficacia diretta negli ordinamenti nazionali senza bisogno di ulteriori passaggi attuativi (una sorta di accordi self-executing)[5].

 

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In conclusione, si potrebbe tentare di affermare che la “forza” giuridica della disciplina del telelavoro nel settore privato sia da considerarsi, con riferimento all’ordinamento italiano, alla stregua di una normativa (prevalentemente) di derivazione collettiva – con tutte le conseguenze che ne derivano in termini di efficacia soggettiva ed oggettiva (trattandosi, quello del 2004, di un accordo interconfederale di “diritto comune”[6] a sua volta implementato, a livello settoriale, dai CCNL e, talvolta, anche da intese aziendali) – attuativa di un accordo collettivo europeo “autonomo”.

 

Accordo europeo che potrebbe avere – se si accoglie la tesi, allo stato, maggioritaria in dottrina – natura di soft law, intesa quale fonte di produzione di regole di condotta che, pur non essendo giustiziabili né sanzionabili (in quanto prive di forza legale cogente), possono comunque produrre effetti legali (indiretti) e, comunque, effetti pratici (come è accaduto in molti Stati membri, tra cui l’Italia, dove il telelavoro ha trovato una sua specifica disciplina).

 

Discorso diverso va fatto, invece, per tutte quelle disposizioni di carattere legale che, seppur non in modo sistematico ma limitatamente a particolari aspetti, fanno riferimento e, pertanto, attuano, con lo strumento che assicura maggiormente la certezza giuridica (la legge), l’Accordo quadro europeo sul telelavoro.

 

A titolo esemplificativo, si prenda l’art. 3, comma 10 del d.lgs. n. 81/2008 (c.d. Testo unico in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro) che, rinviando alla nozione di telelavoro di cui all’Accordo quadro europeo del 2002 (e non – si badi – all’Accordo interconfederale italiano del 2004), di fatto accoglie quella definizione all’interno di una disposizione di legge conferendole valore legale cogente (quantomeno ai fini dell’individuazione delle disposizioni in materia di salute e sicurezza in concreto applicabili).

 

Pertanto, e nei limiti sopra indicati, si potrebbe sostenere che l’Accordo europeo sul telelavoro del 2002 è stato attuato dallo stesso legislatore italiano del 2008 limitatamente alla disciplina relativa alla salute e sicurezza sul lavoro (segnatamente il punto 8 dell’Accordo quadro europeo).

 

Occorre, infine, evidenziare che la “forza” riconosciuta all’Accordo quadro europeo del 2002 potrebbe anche incidere – nel caso in cui l’Accordo venga ricondotto nell’ambito delle fonti (seppur atipiche) del diritto UE aventi carattere vincolante ed inderogabile[7]sulla legittimità di un’eventuale iniziativa legislativa volta ad escludere le specifiche tutele apprestate in materia di telelavoro mediante il ricorso ad accattivanti neologismi che, però, si riferiscono (di fatto) alla stessa modalità di lavoro già oggetto di disciplina della fonte collettiva europea.

 

 

Federico D’Addio

Scuola di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro

Università degli Studi di Bergamo

@federicodaddio

 

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[1] La facoltà di “adattamento” e/o di “completamento”, a qualsiasi livello, dell’Accordo quadro europeo sul telelavoro del 2002 è stata espressamente riconosciuta quale “diritto” in capo alle parti sociali nazionali dalle stesse parti firmatarie dell’Accordo in questione (cfr. art. 1, ult. par.).

[2]  Anche per l’Accordo europeo sul telelavoro del 2002 la Commissione ha svolto un simile ruolo elaborando, nel 2008, un Report in cui l’attuazione dell’accordo negli Stati membri è stata definita un “successo”, cfr. COM (2008) 412, p. 55.

[3] Cfr. A. Lo Faro, Funzioni e finzioni della contrattazione collettiva comunitaria: la contrattazione collettiva come risorsa dell’ordinamento giuridico comunitario, Giuffrè, Milano, 1999, p. 163-187.

[4] Cfr., fra gli altri, B. Caruso, A. Alaimo, Il contratto collettivo nell’ordinamento dell’Unione Europea, in WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona” .INT – 87/2011, p. 36 e ss. Questa tesi poggia su un’interpretazione sistematica delle novità introdotte dal Trattato di Lisbona, segnatamente art. 6 TUE (riconoscimento dello stesso valore giuridico dei Trattati alla Carta di Nizza) e 152 TFUE (carattere “autonomo” del dialogo sociale europeo).

[5] Per un approfondimento della tesi dell’efficacia diretta si rinvia a O. Deinert, Modes of Implementing European Collective Agreements and Their Impact on Collective Autonomy, in Industrial Law Journal, vol. 32, n. 4, 2003, p. 317 e ss.

[6] Come espressamente affermato dalle stesse parti sociali firmatarie nel documento Telelavoro. Recepimento in Italia dell’Accordo-quadro europeo del 16 luglio 2002. Rapporto nazionale congiunto UNICE (Confindustria), UEAPME (Confapi, CNA, Confartigianato, Confesercenti), CEEP (Confservizi), CES (Cgil, Cisl, Uil).

[7] Secondo una certa dottrina, il fatto che non vi sia una specifica disposizione che imponga ai legislatori nazionali di attuare gli accordi europei “autonomi” non escluderebbe affatto l’obbligo in capo agli Stati membri di evitare di intraprendere iniziative legislative aventi un impatto negativo sull’attuazione degli stessi accordi autonomi, in tal senso cfr. B. Bercusson, European Labour Law, Cambridge University Press, 2nd ed., p. 155.

La controversa natura ed efficacia giuridica della vigente disciplina in materia di telelavoro nel settore privato
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