Istruzione e scelte professionali delle donne: gender gap in un report dell’OECD

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Bollettino ADAPT 27 marzo 2023, n. 12
 
Il rapporto tra donne e istruzione racconta la storia di un percorso faticoso costellato da divieti e lotte coraggiose per garantire giustizia sociale, opportunità e libertà a quella parte della popolazione su cui per anni ha gravato una eredità culturale che vedeva la formazione come strumento necessario per educare a rivestire adeguatamente il ruolo di perno all’interno dell’organizzazione familiare. Per esplorare i dati presentati nel Report dell’OECD Gender, Education and Skills: The Persistence of Gender Gaps in Education and Skills è utile ricostruire il percorso che ha portato le bambine del nostro Paese a occupare i banchi delle aule scolastiche affinché non si liquidino le differenze di genere – tuttora presenti nel rapporto tra studentesse e materie scolastiche – con il richiamo alle naturali inclinazioni delle donne che determinano la loro riuscita in alcuni campi piuttosto che in altri.  Il Report OECD restituisce una fotografia della situazione attuale nei sistemi educativi rispetto ai gender gap che spesso sono ancora presenti nelle competenze sviluppate dalla popolazione scolastica e, successivamente, in quella lavorativa.
 
Nel corso dell’ultimo secolo, i Paesi dell’OECD hanno compiuto progressi significativi nel ridurre i divari di genere in molte aree dell’istruzione e dell’occupazione tra cui: l’accesso e i risultati scolastici, le retribuzioni e la partecipazione al mercato del lavoro. Il divario tra i sessi nel conseguimento dell’istruzione secondaria superiore è stato quasi colmato, con una media dell’80% di donne che ha completato l’istruzione a questo livello. Inoltre, nella maggior parte dei Paesi OECD coloro che abbandonano la scuola prima del completamento del percorso formativo sono prevalentemente uomini: questi rappresentano il 58% degli abbandoni scolastici tra i giovani di 18-24 anni. Rispetto alle competenze cognitive, i risultati sono simili nei vari Paesi: le ragazze superano i loro coetanei nelle abilità legate alla lettura mentre i ragazzi fanno meglio in matematica, con un margine molto ridotto rispetto alle ragazze che fanno meglio di loro nella lettura. Si osserva inoltre che, sebbene i divari di genere in matematica non siano ampi, tra gli studenti con risultati elevati i ragazzi tendono ancora a superare significativamente le ragazze in matematica.
 
Per spiegare questi dati si fa riferimento all’atteggiamento degli studenti nei confronti dello studio: mentre per i ragazzi si tratterebbe di comportamenti che segnalano una sottostante mancanza di interesse e motivazione verso lo studio – questi tenderebbero a rimanere indietro rispetto alle ragazze nella lettura perché passano meno tempo a leggere al di fuori della scuola, dedicano meno tempo a fare i compiti e usano per più tempo Internet –, per le ragazze i risultati più bassi sono interpretati come sintomo di una minore fiducia nelle loro capacità e di forti sentimenti di ansia nei confronti della matematica generati dalla sottostante paura di fallire e non soddisfare le aspettative sui loro esiti formativi. Dunque, i risultati scolastici sembrerebbero essere influenzati dalle preoccupazioni che le studentesse hanno rispetto a ciò che i contesti di appartenenza si aspettano da loro.
 
Carmela Covato (2007) ricorda che per secoli la vita femminile è stata contraddistinta da una «educazione a non istruirsi», eredità culturale che ha continuato a condizionare i percorsi scolastici e educativi delle bambine fino agli ultimi decenni dell’Ottocento e all’inizio del Novecento. La legislazione scolastica promulgata in Italia dopo l’Unità per combattere l’analfabetismo stabilì l’obbligo di istruzione e poi di scolarizzazione per i bambini e le bambine senza tuttavia prevedere, insieme alle ammende e provvedimenti per i genitori che non istruivano i figli, forme di incentivazione economica. Per questo motivo spesso le famiglie preferivano impiegare i figli in attività utili al bilancio familiare, ciò accadeva soprattutto per le bambine che si occupavano di mantenere solida l’economia domestica dedicandosi alle attività di cura. Non solo, nelle campagne le bambine erano addette alla raccolta del riso o alle attività del pascolo mentre in città erano impiegate nelle industrie oppure inviate presso famiglie tra il personale di servizio. Questa situazione di mancato accesso all’istruzione è resa evidente dai dati statistici che segnalano come nel 1901 l’analfabetismo femminile era del 54,4% mentre quello maschile era pari al 42,5%, dodici punti di differenza nonostante la legislazione tutelasse l’accesso alla scuola per tutti gli studenti.
 
A inizio Novecento l’associazionismo femminile permise alle donne di rivendicare un ruolo attivo nella società, mettendo in luce la necessità di animare un dibattito su alcuni problemi che affliggevano la condizione femminile tra cui: i pregiudizi di inferiorità, lo sfruttamento lavorativo e domestico, infine la necessità di una emancipazione che passasse necessariamente attraverso l’istruzione. Rispetto all’alfabetizzazione delle bambine, infatti, molte esponenti dell’associazionismo femminile iniziarono a battersi per il diritto all’istruzione attraverso la diffusione di idee pedagogiche innovative, entrando nel mondo della scuola come maestre, e impegnandosi in lotte sindacali. Tutte queste attività erano uno strumento di denuncia della condizione femminile e nascevano dalla convinzione che per intervenire sullo sfruttamento lavorativo e domestico delle donne fosse necessario assegnare all’istruzione la funzione di volano per la mobilità sociale, promuovendo nelle studentesse la consapevolezza della propria condizione e fornendo loro gli strumenti per emanciparsene attraverso il lavoro.
 
Sebbene, come ricordato, la legislazione non distinguesse il diritto/dovere all’istruzione di bambine e bambini, all’interno della scuola elementare i percorsi educativi prevedevano per le prime lezioni di taglio, cucito, igiene, puericultura ed economia domestica, inoltre nei libri di testo venivano proposte figure femminili dedite ai tradizionali mestieri di casa, destinate a divenire il modello di realizzazione personale per le studentesse. Il vivace dibattito tra le associazioni femminili che si occupavano della questione era animato da due posizioni principali ossia quella di chi legava l’istruzione femminile al ruolo materno e familiare e quella di chi tentava di affrancare l’istruzione dalla maternità, emancipando le bambine e le donne quali portatrici di diritti svincolati dalla loro condizione biologica di future madri. Il nodo della maternità era centrale perché sebbene le posizioni pedagogiche dell’epoca proponessero la relazione materna come perno del rinnovamento educativo e morale della società, l’ancoraggio dell’istruzione alla funzione materna rischiava di essere una giustificazione per ridurre la formazione femminile a un percorso minore rispetto a quello dei bambini, determinando a monte l’esclusiva finalità della formazione per le donne ossia ricoprire adeguatamente il ruolo materno (Seveso, 2018).
 
L’ingresso delle ragazze nell’istruzione secondaria era considerato non necessario ad eccezione dell’unico canale formativo pensato per loro ossia il percorso magistrale: da un lato la diffusione delle scuole di metodo e successivamente delle scuole normali creò un apposito canale formativo per permettere anche alle donne di accedere all’istruzione secondaria, dall’altro generò un percorso formativo quasi esclusivamente femminile nonostante gli interventi del Ministero che nel 1909 rese promiscue le scuole normali per evitare la chiusura di molte scuole normali maschili che ormai contavano pochi iscritti. È in questi anni che affonda le radici il cosiddetto fenomeno della femminilizzazione dell’insegnamento che nel tempo contribuì allo svuotamento di potere economico e sociale della professione dell’insegnante, creando uno sbocco lavorativo che era, e rimane, scarsamente retribuito e non adeguatamente riconosciuto.
 
Il percorso storico brevemente ricostruito permette di occuparsi del rapporto tra bambine e risultati scolastici rinunciando a una prospettiva entro cui per spiegare le differenze di genere nel successo formativo si fa riferimento all’esistenza di inclinazioni “naturali”, convinzione che – sebbene in un quadro positivo in cui molte diseguaglianze sono state colmate – persiste quando si discute di genere e competenze. Ricostruire un itinerario storico e culturale del fenomeno permette di recuperare il ruolo che le aspettative sociali hanno sui risultati delle studentesse e degli studenti: se pensiamo che l’ingresso delle donne nei sistemi formativi è stato segnato, per un lungo periodo, dal legame con la funzione di cura entro i sistemi familiari, possiamo formulare l’ipotesi che le attese sociali sugli sbocchi e le opportunità professionali delle donne incidano e determino ancora oggi ciò che le bambine pensano di poter raggiungere attraverso la scuola. Non si tratta di dichiarazioni esplicite o di programmi scolastici con materie differenziate per genere, bensì di una serie di credenze che permeano i contesti sociali, e dunque la quotidianità delle studentesse, e che incidono su ciò che queste ultime considerano desiderabile e perseguibile nel loro futuro professionale. Si pensi, ad esempio, alla sottorappresentazione delle donne nella gestione del settore privato e in politica oppure alla mancanza di modelli di ruolo nei settori STEM in cui le giovani donne potrebbero avere poche prove tangibili per confutare l’idea che la matematica e le scienze siano in qualche modo discipline più maschili.
 
La percentuale di donne che accede a un’istruzione terziaria è aumentata costantemente negli ultimi decenni, tuttavia le giovani donne hanno meno probabilità degli uomini di scegliere le scienze, la tecnologia, l’ingegneria o la matematica come campi di studio universitario: dati del 2017 riferiti alla media dei Paesi OECD riportano che le donne rappresentano solo il 20% dei nuovi iscritti ai programmi terziari a ciclo breve e il 30% dei nuovi iscritti ai programmi di laurea in settori STEM mentre rappresentano il 79% dei nuovi iscritti ai programmi terziari a ciclo breve in ambito sanitario e assistenziale ossia le cosiddette “professioni di cura” (OECD, 2019). L’esistenza di un divario di genere nei campi di studio universitari potrebbe indicare che le giovani donne non sempre traducono i loro validi risultati scolastici in aspettative di carriera e scelte di istruzione superiore che offrono migliori prospettive di occupazione. Negli ultimi anni un numero maggiore di donne è entrato nel mondo del lavoro, ma in tutti i Paesi hanno ancora meno probabilità degli uomini di svolgere un lavoro retribuito. Inoltre, è più probabile che lavorino a tempo parziale, con meno possibilità di diventare manager e imprenditrici, guadagnando spesso meno degli uomini; ciò avviene soprattutto nel settore privato.
 
Il costo di queste disuguaglianze di genere è elevato: se il divario nella partecipazione al mercato del lavoro venisse dimezzato entro il 2025, la crescita media prevista del PIL nei Paesi OECD potrebbe aumentare di quasi 2,5 punti percentuali (OECD, 2017). Inoltre, alcuni studi hanno dimostrato che la riduzione della discriminazione di genere potrebbe portare a un aumento annuale del tasso di crescita del PIL globale compreso tra 0,03 e 0,6 punti percentuali entro il 2030 (Ferrant e Kolev, 2016). Aiutare le donne a partecipare pienamente all’economia non solo favorisce la crescita, ma diversifica le economie, riduce le disuguaglianze di reddito, attenua i cambiamenti demografici e contribuisce alla stabilità del settore finanziario (Gonzales et al., 2015; Kochhar, Jain-Chandra e Newiak, 2017). Intervenire su tali disuguaglianze di genere a partire dalla fase scolastica è possibile recuperando la proposta delle associazioni femminili che fin dai primi anni del Novecento hanno suggerito che per promuovere la mobilità sociale, l’istruzione dovrebbe fornire alle studentesse gli strumenti per riflettere sulla loro condizione e soprattutto sulle prospettive professionali che possono costruire.
 
Ilaria Fiore

Scuola di dottorato in Apprendimento e Innovazione nei contesti sociali e di lavoro

ADAPT, Università degli Studi di Siena

@ilariafiore_

Istruzione e scelte professionali delle donne: gender gap in un report dell’OECD
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