Inclusione scolastica (e lavorativa): è davvero un mito?

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Bollettino ADAPT 15 gennaio 2024, n. 2
 
Lo scorso 12 gennaio Ernesto Galli della Loggia ha dedicato la rubrica “Parole scritte” (La strana amnesia sulle mire di Tito, la falsa inclusività della scuola, Corriere della Sera) al suggerimento di un libro di Giorgio Ragazzini (Una scuola esigente, Rubbettino, 2023). Non un editoriale in prima pagina, quindi, bensì una ventina di righe che sono diventate occasione per esprimere un sintetico giudizio sulla scuola, efficacemente individuato già nel titolo: “il mito dell’inclusione nella scuola italiana”.
 
Le reazioni, per la larga parte indignate, quando non sbeffeggianti, non si sono fatte attendere, tanto sui social, quanto sui media tradizionali. Questo è certo un segnale della celebrità e del seguito di Galli della Loggia, ma, ancor più, della rilevanza e della delicatezza del tema individuato, che mal si presta a un corsivo di poche righe.
 
Gli errori “tecnici” nascosti nelle parole del professore sono molti, anche inaspettati: non è vero che l’inclusione degli alunni con disabilità (e non dei “disabili”…) sia eccezione solo italiana, considerato che la nostra legislazione, certamente avanzata sul punto, deriva da convenzioni e regolamenti internazionali;  l’insegnante di sostegno non è un supporto “personale”, bensì un docente di classe a tutti gli effetti; gli insegnanti dedicati al sostegno si specializzano obbligatoriamente con un anno di formazione universitaria da compiersi in aggiunta alle ordinarie procedure per l’abilitazione (sono perciò più formati di un docente su “posto comune”); gli alunni con disturbi specifici dell’apprendimento (dislessia, discalculia, disgrafia, disortografia) non sono tutelati dalle generiche norme rivolte a qualsiasi alunno con bisogni educativi speciali (tra i quali sono ricompresi gli svantaggi linguistici citati nel calderone da Galli della Loggia), bensì da una legge dello Stato (legge 8 ottobre 2010, n. 170) che garantisce l’accesso a strumenti compensativi e permette soluzioni dispensative perché nessuno si perda nel percorso scolastico.
 
Si tratta di nozioni che si apprendono ai primi anni di qualsiasi corso di Scienze della formazione primaria o di Scienze dell’educazione, ma non è questo il punto. La considerazione più tagliente tra quelle esplicitate dall’editorialista del Corriere della Sera riguarda la natura mitologica dell’inclusione scolastica. È davvero così? Su questo punto si può discutere (anzi, già molto si dibatte in letteratura e tra docenti, dirigenti scolastici e studenti) ed è incontestabile la distanza tra i desiderata delle leggi e dei testi universitari e la realtà di tutti i giorni. È così però per tante delle sfide che interessano la società: non c’è la medesima distanza tra teoria e pratica in materia di violenza? E per quanto concerne l’evasione fiscale? A riguardo della necessità della pace in geopolitica? Circa la qualità della formazione universitaria? L’incapacità di raggiungere gli obiettivi prefissati non è mai una buona ragione per evitare di porseli.
 
L’educazione sociale è un processo lento, che ha bisogno di testimoni efficaci della fondatezza delle ragioni e istituzioni in grado di maturare e fare maturare una nuova coscienza. Il processo di integrazione scolastica degli alunni con disabilità è iniziato alla fine degli anni Settanta in parallelo con l’evoluzione della disciplina del collocamento speciale nel mercato del lavoro; quello di inclusione (che dell’integrazione è l’evoluzione) anche lavorativa solo a cavallo di secolo; da meno di quindici anni si parla anche di personalizzazione (che è il gradino successivo). Non è un arco di tempo sufficiente per “tirare i remi in barca” e consegnare la pedagogia speciale alle pagine del “mito”, dimenticando che la scuola non ha esclusivamente una funzione di istruzione e preparazione alla vita adulta (sia in termini civici che lavorativi), bensì anche – se non soprattutto – quella di educazione e inclusione nella società. Mai come in questa epoca risulta evidente l’infondatezza di etichette come “alunno con disturbi” o “alunno normale”: anche le aule ove insegna Galli Della Loggia sono vissute da giovani con storie personali estremamente diverse, assai variegate, non riducibili a una qualche “media antropologica”, da cui derivano debolezze e difficoltà, temporanee o croniche, che incidono eccome sui processi di apprendimento e sulla transizione verso il mercato del lavoro.
 
È questo il motivo, filosofico, pratico, ma anche giuridico (si rileggano le magistrali pagine della Sentenza n. 215/1987 della Corte Costituzionale, che sembrano scritte per rispondere ai dubbi posti nell’articolo in commento) per il quale è necessario che ogni persona con disabilità, con disturbi specifici di apprendimento e con bisogni educativi speciali (senza sigle!) abbia la possibilità di incontrare i suoi coetanei, crescere con loro, partecipare alla vita sociale e lavorativa, avere la possibilità di entrare in relazione con educatori che sappiano guardarlo oltre il suo limite. In fondo, è quel che desidera chiunque di noi.
 

Emmanuele Massagli

ADAPT Senior Fellow e Presidente della Fondazione Tarantelli

@EMassagli

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