Impresa formativa, i primi passi di un ponte tra scuola e lavoro

Avvicinare la scuola al mondo del lavoro, ridurre la distanza tra l’idea platonica di formazione e la spendibilità di competenze sul campo, educare ragazzi (ma anche adulti) attraverso un’esperienza lavorativa tutelata: sono obiettivi chiave, e tra loro sinonimi, che danno forma ad una sfida tanto per il mondo del lavoro quanto per il sistema dell’istruzione e formazione.
 
L’Impresa formativa, modalità di formazione in assetto lavorativo, è una sintesi delle strategie appena richiamate: ricreando una realtà produttiva all’interno di un’istituzione scolastica, può coniugare sia l’apprendimento in situazione reale che la vera e propria gestione di un’organizzazione produttiva.
 
Ma perché ricorrere ad un’esperienza simulata? Perché sebbene tutti gli indicatori macroeconomici lascino intendere che l’unica direzione che il nostro Paese deve e può seguire sia quella dell’integrazione scuola-azienda, sembra che portare la scuola all’interno dell’impresa sia ancora, e soprattutto quando prevale un’esigenza di inclusione in un contesto di svantaggio sociale, un’operazione titanica. Partendo dal presupposto che le due modalità principali a disposizione delle scuole e delle aziende per integrare i due percorsi sono l’alternanza scuola-lavoro e l’apprendistato, numerosi sono i motivi per i quali troppe volte si decide di rinunciare già in partenza.
 
L’alternanza scuola-lavoro che, per il tramite dei tirocini curriculari, potrebbe essere la modalità principale di questo sistema, presenta un grosso deficit: fatta eccezione per alcuni progetti sperimentali come, ad esempio, il Progetto IMO di Federmeccanica-Federmanager, troppo spesso i periodi di apprendimento in situazione lavorativa sono esigui. Uno spaccato su questa situazione è dato dal report Indire “Alternanza scuola lavoro. Binomio Possibile?” che ben evidenzia le difficoltà nello sviluppare percorsi di alternanza scuola-lavoro che superino le 100 ore per ogni annualità. Un monte ore decisamente irrisorio per acquisire e maturare un livello appena sufficiente di competenze spendibili per un’azienda. Ben al di sotto, per altro, dell’ambizioso monte ore obbligatorio che il programma “La Buona Scuola” vorrebbe introdurre: 600 in tre anni, ora ragionevolmente ridotte a 400. Sebbene tale novità possa essere un balzo enorme in avanti per il sistema italiano, sarebbe un piccolo passo rispetto all’agognato sistema duale tedesco a cui lo stesso documento de “La Buona Scuola” ambisce a tendere, che prevede più di 1.000 ore annue – calcolate su una media di 8 ore al giorno per 4 giorni a settimana come avviene ad esempio in Audi e BMW – trascorse in apprendimento situazionale in azienda.
 
La seconda possibilità, quella data dall’apprendistato, che potrebbe essere una leva fondamentale, anche dal punto di vista motivazionale per gli studenti, viene periodicamente smantellato nella sua disciplina rendendo difficili progettazioni a lungo termine e, a maggior ragione, la sperimentazione. L’introduzione del cd. Contratto a tutele crescenti porterà probabilmente ad un progressivo abbandono di tale strumento ai fini dell’integrazione scuola-azienda. A meno che le imprese non inizino a richiedere competenze specifiche alle istituzioni formative del territorio o si creino partnership “singolari” come quella Ducati o Enel – la prima in modalità training center aziendale, la seconda come accordo multilaterale tra un’azienda e più scuole. Qualcosa potrebbe cambiare con lo Schema di decreto riguardante il riordino delle tipologie di contratto di lavoro, che prevede anche una riforma dell’apprendistato “scolastico” di primo livello: una conferma in senso strutturale della sperimentazione di apprendistato “per il diploma di scuola superiore” ed una decisa semplificazione sulla procedura per la configurazione di percorsi individuali di apprendistato con alunni del sistema di Istruzione e Formazione Professionale.
 
Pochi o nulli, inoltre, sono gli incentivi previsti per questo tipo di attività: dal punto di vista scolastico, nessun tipo di beneficio, ad esempio in termini di rinnovo di materiali e attrezzature, è previsto per quegli Istituti che si facciano pionieri in questo ambito. Stessa cosa in ambito aziendale, per cui, al momento, non è previsto alcun tipo di sgravio fiscale per le imprese accoglienti, sebbene novità in questo senso fossero state annunciate negli ultimi mesi del 2014 nel resoconto, pubblicato dal MIUR, della consultazione pubblica sul documento de “La buona scuola”.
 
Alternanza ed apprendistato sono leve per la formazione di bacini di competenze a disposizione del mercato del lavoro. Un metodo alternativo, più educativo che di mercato, per creare sinergie tra mondo scolastico e mondo delle imprese c’è, ed è quello della Impresa formativa, nella quale gli studenti, durante il proprio percorso di apprendimento scolastico, simulano la gestione di una vera e propria azienda. Un metodo più tutelare rispetto agli istituti di cui discusso in precedenza, ma certamente una prima soluzione al gap formativo presente nel nostro ordinamento scolastico.
Anche in questo caso le difficoltà culturali potrebbero essere notevoli, soprattutto nella misura in cui la maggioranza degli insegnanti del secondo ciclo di istruzione superiore, non provenendo da un contesto aziendale, avrebbe necessità di “toccare con mano” il mondo delle imprese. Queste ultime sarebbero disposte a erogare questa formazione? Quali sarebbero i vantaggi per loro?
 
L’incontro avvenuto presso il ristorante formativo “Le Torri”, a Bologna, lo scorso 4 marzo, è stata un’occasione eccellente per approfondire sul tema. Organizzato lo scorso 4 marzo da Cefal, Consorzio Europeo per la Formazione e l’Aggiornamento dei Lavoratori, è stato significativamente intitolato “World Café”, in considerazione del respiro internazionale che il concetto e la sperimentazione di Impresa formativa sta assumendo e della presenza di numerosi ospiti stranieri. Un format particolare, quest’anno, in cui l’informalità del pranzo tra gli specialisti di diversa estrazione è stata declinata all’interno di un percorso di discussione guidato, in cui i partecipanti sono stati invitati ed incoraggiati a produrre, scrivere e segnalare idee e considerazioni tra una portata e l’altra, cucinata e servita dai ragazzi del ristorante formativo.
 
Sono emersi alcuni argomenti interessanti. Una volta riuniti i diversi tavoli, sei in tutto, i relatori si sono espressi confrontandosi con un tavolo “gemellato” ed analizzando un insieme di punti salienti. L’alta competenza tecnica e l’importante livello di esperienza hanno permesso di evidenziare soprattutto tematiche di carattere pratico-operativo: il ruolo delle best practice, la figura del manager dell’Impresa formativa ed infine le difficoltà che incontrano le imprese formative, tra un quadro normativo poco chiaro e disomogeneo ed un raccordo non sempre facile con incentivi e finanziamenti nazionali.
 
A differenza di alternanza ed apprendistato, la disciplina riguardante l’Impresa formativa è meno istituzionalizzata, circostanza che, di conseguenza, rende piuttosto agevole l’attuazione di sperimentazioni, ma anche più difficile valutare la compliance del sistema. La disciplina dell’Impresa formativa rientra nell’ambito dell’istruzione e formazione professionale, di competenza, quindi, delle singole Regioni. Le eccellenze, così come per i percorsi di integrazione formativa scuola-lavoro in genere, non mancano: centri di formazione di qualità come il Cometa di Como, l’impresa sociale a responsabilità limitata FORMeL in Veneto e l’Istituto Prever di Pinerolo, sono già realtà funzionanti, sul versante dell’Impresa formativa.
 
Spicca inoltre l’assenza dell’Impresa formativa dal decreto legge di attuazione del programma governativo “La Buona Scuola”, pur presente nel documento di presentazione iniziale. Denominata “Impresa Didattica”, nel testo, al capitolo 5, “Fondata sul lavoro”, si richiamava «necessario incoraggiare l’uso della doppia contabilità […] e generalizzare la possibilità di produzione in conto terzi».  Produzione che, prosegue il testo ministeriale, «è particolarmente rilevante se consideriamo che sempre più scuole avranno l’opportunità di sviluppare prototipi, ad esempio attraverso la stampa 3D».
 
Qual è dunque la risposta alla domanda su come avviare a scuola un’Impresa formativa? Non esiste, come evidenziato anche dal Dossier “Un Percorso verso l’Impresa formativa” del network EVT-Enterprise Vocation Transition, attualmente, una legislazione nazionale specifica. Salvo regolamentazione regionale – Lombardia, Veneto e Friuli-Venezia Giuliagli enti che volessero dar vita a sperimentazioni di istruzione e formazione in situazione reale non avrebbero un regolamento o modello di funzionamento cui far riferimento. Ci si è chiesto, allora, se sia più funzionale aspettare una riformulazione nazionale delle norme vigenti, oppure attendere una generica conferma sulla liberalizzazione dell’istituto, di modo che, guardando alle varie buon prassi, ogni territorio possa rifarsi a quella che meglio va incontro alle particolari esigenze ed attitudini della realtà locale.
 
Esemplificativa in tal senso è la chiarificazione fornita dal Ministero del lavoro all’interpello n. 3 del 2 febbraio 2011 dell’Università di Bergamo che ben mette in luce come «la possibilità di far svolgere agli studenti “una formazione in assetto lavorativo” nell’ambito di attività di produzione e vendita di beni e servizi, può ritenersi applicabile, in quanto conforme al complessivo quadro ordinamentale, a tutti gli enti di istruzione formazione professionale regionali regolarmente accreditati per l’erogazione dei servizi in diritto dovere, indipendentemente dalla natura giuridica del soggetto erogatore». L’interpello richiama il Decreto interministeriale n. 44 del 1° febbraio 2001, il quale, occupandosi di “Istruzioni generali sulla gestione amministrativo-contabile delle istituzioni scolastiche”, specifica che queste «nell’esercizio dei compiti di formazione ed educativi, hanno facoltà di svolgere attività di servizi per conto terzi, nonché di alienare i beni prodotti nell’esercizio di attività didattiche o di attività programmate». Inoltre, «gli eventuali utili rinvenienti dalla predetta attività sono destinati, nell’ordine, alla copertura dei relativi costi ed al miglioramento ed incremento delle attrezzature didattiche. Qualora le stesse attività non producano utili, i relativi costi sono posti a carico del programma dell’istituzione scolastica».
 
Dal punto di vista normativo, rimangono dunque aperte molte questioni sulle quali l’emulazione delle best practice non potrà essere sufficiente. Le modalità di gestione di un’Impresa formativa, opportunamente, necessitano una sistematizzazione: senza dubbio per quanto riguarda l’accreditamento degli enti titolati e la gestione contabile-fiscale in regime di contabilità separate (e non  rendicontazione di costi fissi, per non ingabbiare eccessivamente la destinazione economica dei fondi dell’impresa), meno urgentemente su temi quali il rispetto delle norme lavoristiche dal parte dell’azienda (dato per scontato) e sullo status giuridico degli studenti, cui certamente non va riconosciuto quello di lavoratore dipendente – come già avviene per i soci volontari delle cooperative sociali – né quello di tirocinante, la cui regolamentazione sulle quote di contingentamento dei tirocinanti in azienda rischia di compromettere la tenuta stessa dell’istituto.
 
Altro punto centrale della discussione è stato il ruolo del manager dell’Impresa formativa. La natura ancipite di formatore e di gestore di una realtà produttiva rende questa posizione particolarmente delicata. Gli studenti di un’Impresa formativa (che nella letteratura europea sono definiti “beneficiari”), non sono lavoratori, ed inoltre l’impresa stessa ha tendenzialmente più uno status di fatto che un riconoscimento formale giuridico. In questo ruolo peculiarissimo, il manager dell’impresa sociale è allora prima di tutto un garante della mission educativa, dei diritti dei beneficiari e degli equilibri coerenti con la finalità dell’impresa.
 
Mission, termine che attiene all’ambito del fundraising, delle organizzazioni senza scopo di lucro e delle attività di beneficienza organizzata, di un’Impresa formativa è senza dubbio, in primo luogo, il percorso educativo-formativo che i ragazzi intraprendono. La direzione di un’impresa sociale non può prescindere dal fattore inclusione, quello cioè che consente ai partecipanti di poter operare in un contesto effettivo ma pur sempre protetto, nel rispetto di ogni competenza e di ogni individuo, anche di chi ha esigenze particolari o particolari difficoltà. In questo senso, la funzione del manager dell’Impresa formativa è da accostarsi al ruolo dell’allenatore che, professionista o dilettante, è promotore sia della crescita che della produttività, intesa come efficienza, della squadra.
 
D’altra parte, chi dirige un’Impresa formativa non può che garantire i diritti dei beneficiari, intendendo con questo l’importanza di non lasciare che il percorso educativo vada alla deriva a causa di spinte economiche contingenti. Questo porta a mettere in posizione centrale la tutela degli equilibri: sostenibilità economica e fine educativo, ricerca dell’utile e sostenibilità piena, esperienza di mercato e dimensione protetta, competitività ed inclusione. Opposti ai quali il manager ideale deve essere in grado di trovare una sintesi. Non è certamente secondaria, in un’Impresa formativa, la motivazione economica: l’utile sociale (anzi, “socializzato”, come è stato sottolineato nel corso dell’incontro) è funzionale all’investimento in attrezzature e materiale educativo e concorre a rendere sostenibile l’attività stessa. Sostenibilità che, è emerso, va posta in equilibrio con l’assenza di scopo di lucro.
 
Come si pone nei confronti del mercato il “manager formativo”?  Nel rispondere a questa domanda, vengono in luce le differenze tra l’Impresa formativa come istituzione ed il ruolo formativo che ha l’impresa in senso lato. A differenza di un “manager formatore”, quello che, ad esempio, organizza la formazione per i propri apprendisti, questo dirigente sviluppa le competenze della propria “forza lavoro” non tanto per le ricadute che l’arricchimento di capitale umano potrebbero avere sull’organizzazione in cui opera, ma perché queste siano spendibili sul mercato del lavoro generale. In altre parole: non tanto per un effetto positivo sulla popolazione aziendale occupata, ma per accrescere il potenziale di occupabilità delle risorse ancora in formazione.
 
La dialettica col mercato è ricca e complessa: l’Impresa formativa è immersa in una logica di mercato (quello in cui vende beni e servizi e su cui operano entità che, con o – più probabilmente – senza scopo formativo, si contendono il settore economico) che non può essere esperita appieno, data la valenza inclusiva del lavoro per i beneficiari, ma che del resto non deve essere affatto trascurata, per non vanificare la necessità di operare “dal vero” e non in un mero laboratorio. Consapevole di questo doppio rischio, il “manager formativo” emerge come una figura professionale sui generis: nel suo curriculum devono trovare spazio sia competenze formative, tra cui spicca la capacità di adottare e sviluppare un metodo educativo fortemente innovativo, sia abilità gestionali, per assicurare che l’esperienza di lavoro non sia prettamente simulata e che l’attivo a chiusura del bilancio annuale renda sostenibile l’intero progetto.
 
Quali dunque le riflessioni conclusive al termine di una giornata di scambi con attori diversi che hanno portato sul tavolo le proprie esperienze, gli ostacoli e i dubbi incontrati, ma anche le soddisfazioni nel veder crescere sotto i loro occhi piccoli lavoratori?
 
Innanzitutto non è azzardato affermare che creare un ponte tra scuola e lavoro è un’impresa ancora ardua e sottovalutata in Italia, soprattutto nella misura in cui la formazione non viene sempre concepita come un’opportunità.
Ciò che emerge in maniera netta è l’esigenza che la scuola esca dalla antica concezione che il suo ruolo sia quello di formare cittadini, mentre il mondo delle imprese insegnerà ai ragazzi ad essere lavoratori. Queste due dimensioni non possono più rimanere avulse l’una dell’altra e devono trovare una sintesi in una nuova concezione di scuola.
 
Simone Caroli
@SimoneCaroli
 
Carlotta Piovesan
@CarlottaPiovesa
Scuola di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro
ADAPT-CQIA, Università degli Studi di Bergamo
 
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Impresa formativa, i primi passi di un ponte tra scuola e lavoro
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